Aldo Maturo
30.9.2010
Derattizziamo la
Svizzera. E’ l’ultimo slogan ispirato non all’ambiente ma al razzismo contro
quegli italiani che tutte le mattine attraversano la frontiera per andare a
lavorare nella terra del formaggio e della cioccolata.
La storia amara dei
nostri lavoratori in Svizzera viene da lontano. Un loro scrittore, Max
Frisch, parlando di noi aveva scritto “aspettavamo delle braccia sono arrivati
degli uomini”.
E’ forse anche per
questo che sono ancora indesiderabili quei nostri 45.000
“frontalieri” che ogni giorno pendolano avanti e indietro per andare
nella
vicina terra promessa con gli stipendi che si dice essere i più alti del mondo.
La
campagna denigratoria e xenofoba, lanciata da qualche genio del civilissimo Canton
Ticino con il contributo grafico di un ex calabrese, identifica in tre topi
l’immagine degli indesiderati: Fabrizio, l’italiano di frontiera, Bogdan, il
rumeno prototipo della delinquenza e Giulio, riferito a un ministro
nostrano accusato metaforicamente di aver svuotato (?!) le banche
svizzere con il suo provvedimento sullo scudo fiscale.
Forse
i nostri pendolari hanno avuto un brivido e avranno prese le distanze dai tanti
slogan sentiti la sera prima nei bar sotto casa contro i terroni, gli albanesi
o i magrebini, accusati di delinquere e di rubare il lavoro agli altri.
Cara,
vecchia Svizzera. Il suo “amore” per l’Italia non cambia mai. E pensare che
secondo i dati del 2009 circa un terzo della loro popolazione residente
risultava immigrata o discendente di immigrati, con una presenza di 298.000
italiani. I soli frontalieri sono un quinto della loro popolazione attiva.
Da
ricordare che nei “vicini” anni ’70 in Svizzera c’erano circa 30.000 bambini
italiani clandestini, portati di nascosto dai genitori siciliani e
veneti, calabresi e lombardi, a dispetto delle rigorose leggi elvetiche contro
i ricongiungimenti familiari, genitori terrorizzati dalle denunce dei vicini
che raccomandavano perciò ai loro bambini: non fare rumore, non ridere,
non giocare, non piangere.
Sono passati alcuni anni
ma evidentemente è ancora attuale il discorso di chi scriveva da quelle
parti : “…mogli e i bambini degli immigrati? Sono braccia morte che
pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro d’una congiuntura lo
stesso benessere dei cittadini. Dobbiamo liberarci del fardello». «Dobbiamo
respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i
lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il
primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale.
Scalano i posti più comodi, studiano, s’ingegnano: mettono addirittura in crisi
la tranquillità dell’operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo
sgabello con davanti, magari in poltrona, l’ex guitto italiano».
Il
Consiglio di Stato del Canton Ticino ha preso le distanze dalla campagna
denigratoria. Ma, visto che ogni mondo è paese, bisogna vedere se le stanze
della diplomazia rispecchiano le idee di chi sta per strada.