domenica 4 marzo 2012

IL CERTIFICATO DI VACCINAZIONE

Aldo Maturo

18.6.2005

Faceva un gran freddo e don Gennaro se ne accorse appena scese dal letto. Quella mattina si era alzato prima del solito perché alle 9 doveva stare al poliambulatorio dell’ospedale San Carlo per fare la vaccinazione. Era dall’altra parte della città e  per arrivare fin lì lo aspettavano almeno due autobus, se non ci si metteva in mezzo lo sciopero, come aveva sentito al telegiornale la sera prima. 
Donna Concetta era rimasta a letto, raggomitolata sotto le lenzuola dopo essersi tirata addosso anche la parte delle coperte di don Gennaro. ”Gennarì, cambiati i calzini e le mutande, quello può darsi che il dottore ti visita pure…” urlò con voce soffocata dalle coperte che le coprivano la testa. “…ti ho stirato i pantaloni e la camicia - aggiunse con voce roca - sono sulla stufa…in cucina….”. Poi tacque e si rigirò sul fianco destro, spostando i bigodini che le schiacciavano l’orecchio. 

Il pover’uomo le rispose mugugnando mentre, in piedi davanti al lavandino, guardava infreddolito l’acqua ghiacciata scorrere dal rubinetto. Ogni tanto osava infilarci sotto la punta del dito indice e, attraverso lo specchio, lanciava un’occhiata alla spia rossa del vecchio scaldabagni, appeso alle sue spalle, che da giorni si accendeva e si spegneva indeciso se continuare a fare il suo dovere  intiepidendo  l’acqua almeno per fare la barba,  come faceva da quasi 20 anni,  o spegnersi definitivamente per costringere don Gennaro a chiamare l’idraulico, mestiere ignoto in quella casa.
Uscì di casa alle 8 e qualche minuto, attraversò la strada piroettando tra macchine e motorini, e si diresse subito alla fermata del 118. Erano anni che non usciva così presto di casa e si meravigliò di vedere tanta gente in giro a quell’ora. L’autobus arrivò facendosi largo con rassegnazione tra le auto in sosta sulla corsia preferenziale. Don Gennaro salì e riuscì anche ad entrare, non del tutto in verità e solo perché da dietro lo spinsero.
  Sentì  le porte pneumatiche ansimare e rinchiudersi sbuffando alle sue spalle e pensò che di certo avevano agguantato un lembo del suo cappotto. Provò a muoversi, a tirare, niente, era come se qualcuno lo trattenesse da dietro. Un lembo dello spacco del cappotto era rimasto incastrato in mezzo alle due porte che si erano schiacciate tra di loro senza pietà. L’unica cosa era restare fermo, disinvolto per non far capire agli altri cosa era successo ed aspettare che le porte si riaprissero alla successiva fermata per liberarsi da quell’incomodo. Per un attimo il suo pensiero andò anche a Donna Concetta e ai suoi urli, che di certo  lo avrebbero rincorso da una stanza all’altra della casa per ricordargli ancora una volta, cappotto riverso sul braccio come vittima incolpevole, che era il solito maldestro.
Dopo un tempo interminabile arrivò la fermata e qualcuno  scese dalla porta davanti. Lui, che era rimasto immobile, in piedi sullo scalino della porta di dietro, si strattonò e riuscì ad avanzare di quasi un metro, ma senza camminare, spinto solo da quelli che entravano. Il cappotto era salvo e una volta a terra, pensò, avrebbe visto con calma cosa gli era successo.
A Piazzetta S.Maria l’autobus si svuotò perché scesero tutti gli studenti e la fermata dopo scese anche lui, per aspettare il 45 sbarrato rosso. Controllò il cappotto e si consolò perché c’era solo un segno nero lasciato dalla gomma  delle porte. Forse donna Concetta non si sarebbe accorta di niente.
Arrivò in ospedale alle nove meno un quarto, attraversò il viale d’ingresso ed entrò in un salone immenso, pieno di gente. Su un lato macchinari in disuso ricoperti di polvere d’annata e scatoloni vuoti di medicinali. Di fronte vide un grosso bancone, vetrato come quello di una banca, e  tre file, ognuna da venti o trenta persone, in attesa davanti a tre sportelli, anonimi, senza indicazione, senza un cartello che indicasse il servizio offerto.
Don Gennaro scelse una fila a caso e alla signora che lo precedeva chiese a cosa servissero le tre file. La donna, una opulenta signora sulla cinquantina che non si era rassegnata ad accettare la sua età, gli spiegò con aria dottorale tutto il processo produttivo che si snodava davanti ai loro occhi : la prima fila era per prendere il numero di prenotazione, la seconda per entrare nell’ambulatorio dove si faceva la vaccinazione e la terza per ritirare il certificato di avvenuta vaccinazione.
  Tra la prima fila e l’ultima passava un intermezzo di almeno 15 giorni, perché il certificato non si poteva avere in giornata, dopo aver fatto le prime due file. “A meno che…” “...a meno che?” ripetè Don Gennaro con aria incuriosita ed interrogativa. “...a meno che non vi rivolgete a don Ciro…” concluse la donna con l’aria di chi aveva già parlato troppo, indicandogli con un movimento impercettibile del viso e degli occhi un signore distinto, con una giacca stazzonata e la cravatta a mezz’asta, che faceva la spola tra l’ingresso centrale, il salone e gli uffici interni, dove si infilava con disinvoltura attraverso una porta semichiusa alla destra del bancone principale. Ogni tanto parlava con qualcuno che usciva dalla terza fila o con altri in attesa nell’ingresso centrale.
Don Gennaro in circa due ore scalò le prime due file e finalmente fu ammesso in ambulatorio, una stanzino squallido, con un lettino in similpelle tagliuzzata come tante ferite aperte, una scrivania in metallo bianco scrostato, due sedie, una per lui e l’altra per il medico che, con pochi capelli riportati dall’orecchio destro al sinistro, zappettava sulla tastiera del computer e non aveva alzato neppure gli occhi. L’infermiere era in piedi, emaciato, con l’aria stanca di chi aspetta la fine del turno.  Il dottore gli  chiese come si chiamava. “Cacace Gennaro, 15 gennaio 1935” rispose. I due in camice si dissero qualcosa e finalmente si verificò l’evento, la vaccinazione, sul braccio destro che aveva offerto dopo essersi spogliato e tirato su la manica della camicia, mentre gli venivano in mente le inutili previsioni di donna Concetta.
Si alzò, si rivestì ed uscì di nuovo nel salone, sempre pieno di gente in attesa scomposta sulle tre file.
“ ...quindici giorni, ci vogliono 15 giorni” – sentì dire dall’impiegato del terzo sportello ad un signore che era arrivato primo in quella fila.
“Ma a me il certificato mi serve domani” rispose l’uomo temendo di aver osato chiedere troppo.
“E vi potevate ricordare prima – rispose l’impiegato alzando gli occhi al di sopra degli occhiali incerottati e calati sulla punta del naso – qui siamo in pochi, ci sono le ferie, non c’è personale…e scusate...voi dovete capire...” 
  Don Gennaro capì che era inutile fare la fila. Si girò e cercò con gli occhi la sagoma di don Ciro. Lo vide uscire dalla porta accanto al bancone con dei fogli in mano. Lo seguì fino all’atrio, a distanza. Lo vide parlare con una coppia anziana che lo aspettava seduta su una panchina di ferro e che si era alzata al suo arrivo. Un breve scambio di fogli e i due andarono via. Forse era quello il momento, accelerò,  si affiancò a don Ciro e gli spiegò brevemente che aveva un bisogno urgente di avere il certificato di avvenuta vaccinazione.
Don Ciro fu gentilissimo, felice di mettersi a disposizione. Rispose che la cosa si poteva fare. Con 10 euro il certificato sarebbe stato pronto l’indomani mattina. Allo sguardo interrogativo di don Gennaro aggiunse:”vabbè, se proprio avete fretta, con altri 5 euro può essere pronto anche tra un’ora”.
A don Gennaro gli si illuminarono gli occhi. In un attimo gli venne in mente che si sarebbe potuto evitare un’altra alzataccia, l’acqua fredda, i due autobus, le ore di fila. Accettò ma non potè fare a meno di chiedere: “Don Cì..scusate…ma come fate a….”. Don Ciro con aria professionale rispose: “…e che ci vuole…quello io prima lavoravo qui…li facevo io i certificati… li faccio anche adesso e poi li porto a firmare al mio amico….”
 “Ma allora la fila qui fuori…i numeretti per entrare…”
 “…e la fila serve per quelli che possono aspettare il loro turno. Scusate, prima vengono quelli come voi, quelli che hanno fretta…” “….sapesse quanta gente debbo aiutare tutti i giorni…” aggiunse con aria indaffarata sparendo dietro la porta affianco al bancone. Riapparve subito, solo con la testa, tenendo la porta socchiusa: “A proposito,ma voi come vi chiamate?..” “Cacace...Gennaro Cacace” bisbigliò don Gennaro con aria soddisfatta, dando un’occhiata a quei poveracci in fila allo sportello.