domenica 4 marzo 2012

FOSSOMBRONE: NASCITA DI UN SUPERCARCERE


Il 21 luglio del 1977 si sentono in lontananza, sempre più distinte, le sirene impazzite di decine e decine di auto che precedono e seguono i pullman con i nuovi  detenuti ritenuti dal Ministero tra i più pericolosi d’Italia. Un elicottero controlla il paese girando a cerchio sui tetti ed uno si piazza sul carcere in stand-by per ore ed ore.



Aldo Maturo

ex Direttore C.R. Fossombrone 1976-1981

 
Il “carceron”, la casa penale, le Guardie del Bagno, i Tiracatorc’. Non erano termini dispregiativi quelli che sentivo per la prima volta in quei lontani giorni di maggio 1976, catapultato a Fossombrone dagli Istituti Penitenziari di Roma Rebibbia per rilevare un anziano direttore, in missione bisettimanale da Pescara, e prendere in mano le sorti di questo vecchio istituto che, in pochi mesi, aveva accantonato una tradizione trentennale di Casa per Minorati Fisici per tuffarsi nel caos di un carcere con 200 detenuti, metà minorati e metà provenienti da altri penitenziari, spesso resi inagibili dalle rivolte che avevano caratterizzato il pianeta carcere in quei primi anni ’70.
Alcuni termini per me, campano, erano incomprensibili ma capivo che non potevano essere offensivi, perché ‘el carceron faceva parte della vita del paese e in molte famiglie c’era un marito, un figlio, un cognato, un genero, un nipote, un suocero che lavorava o avrebbe voluto lavorare “laggiù”, tra quelle mura che allora non avevano tanti misteri. La domenica mattina erano tante le persone che andavano a passeggiare sul viale del carcere, trovando il vecchio portone in legno socchiuso, l’agente sulla soglia, come solo allora si poteva immaginare, prima che “gli anni di piombo” blindassero quelle mura proiettandole in prima linea.
1979
Il carceron non aveva misteri per il paese e, con la CIA di Villa San Martino, era solo il luogo che dava lavoro a tante persone, dignitose, affidabili, tutto sommato fortunate, che la sera passeggiavano con la famigliola in centro sotto i portici “ricchi” per fare la “vasca”, gente perfettamente integrata, accettata, benvoluta.
Una vita intramurale abbastanza serena, pochi gli episodi di intemperanza fino ad allora, con quei detenuti “minorati fisici” sostanzialmente tranquilli perchè consapevoli di vivere una carcerazione privilegiata rispetto all’inferno delle altre carceri italiane.
Circa sessanta uomini, tra agenti e sottufficiali, un Comandante ed un ragioniere era tutto quello su cui si poteva contare in una costruzione che mostrava tutti i suoi anni. Alloggi di fortuna per gli agenti,  uffici appesantiti da vecchi arredi,   celle prive di riscaldamento, un camminamento di ronda che copriva solo tre lati del muro di cinta, sormontato da garitte inagibili, insicure, prive di citofoni e con i  vetri rotti. Di notte poche lampadine pretenziose puntellavano gli spazi interni ed esterni del carcere creando piccoli coni di luce alternati ad ancor più pericolose zone d’ombra. Tutta la Via Leopardi, la strada che costeggia l’ingresso principale, era allora senza camminamento di ronda, delimitata solo dal muro  alto poco più di quattro metri  alla cui sommità i lastroni in pietra erano stati disallineati dalle intemperie e da rigogliosi ciuffi d’erba.

 UNA STORIA LUNGA 150 ANNI



Carcere di Fossombrone (foto Maturo)
Quel Carceron era un’istituzione per il paese, anzi l’Istituzione, e la sua storia partiva da molto lontano, anche se non è possibile risalire con certezza ai primi atti, sperduti in qualche armadio dei polverosi archivi del  Reale Genio Civile.
Di certo i primi progetti rinvenuti risalgono al 1870 e riguardano il “braccio di levante” (attuale Sezione di Levante) alla cui costruzione aveva chiesto di partecipare l’Impresa di Giuseppe Nicolini, che già da circa 10 anni  si era aggiudicati i lavori del braccio di Ponente ed aveva aperto così il primo cantiere per la costruzione del carcere lì, su quell’area pianeggiante di circa 10.000 mq. appartenente ai principi Ruspoli, sovrastata dalla Cittadella, a pochi metri dal Metauro che, oggi come allora, scorreva silenzioso 20 metri più sotto. La costruzione, programmata dallo Stato pontificio, avrebbe rappresentato per la zona “gran ventura” con indubbi riflessi economici.
Col primo appalto, come detto, era iniziata la costruzione della Sezione che affaccia su Via Torricelli, poi detta Sezione di Ponente. Ma nel 1870, nonostante l’Impresa Nicolini avesse ancora i lavori in corso, era stata l’Impresa Nardi ad aggiudicarsi il secondo lotto ed a firmare, davanti al Prefetto di Pesaro, il contratto per la costruzione della Rotonda e della Sezione di Levante. Nel capitolato si stabilisce che “tutto il pietrame per le mura sarà tratto dalla cava del Sasso”, vicino al paese, che “la calce sarà fatta con il Torrente Tarugo”, affluente del Metauro, dal quale ultimo sarebbe stata estratta la sabbia. I lavori della Sezione Centrale, da adibire ad Infermeria, hanno inizio invece nel 1887 e dopo due anni una perizia di variante – mai realizzata – ne prevederà l’ampliamento per portarla a 216 celle con prolungamento a Nord e dopo aver espropriato altri 7.000 mq. di terreno dei principi Ruspoli.
L’istituto, dopo circa 30 anni, assunse la configurazione attuale, a croce latina, con la palazzina direzionale a sud, parallela alle due sezioni detentive.
Inizialmente costituito da 180 posti in cella singola e 20 in cameroncino, venne adibito a Casa di segregazione cellulare, secondo gli orientamenti penitenziari del tempo,  ostili alla vita comunitaria dei detenuti.
Tale destinazione resterà per molti anni, con una disciplina interna molto rigida, solo in parte alleviata dall’attivazione di laboratori di sarti, calzolai, falegnami e fabbri. Quasi inesistenti i rapporti con l’esterno. Basti pensare che in un solo registro verranno annotati i colloqui con le famiglie svoltisi in 34 anni.
Con il Codice Rocco del 1932 avviene la trasformazione in Casa di Reclusione per delinquenti abituali, professionali e per tendenza ma in realtà non ci si astenne dal custodirvi anche detenuti politici. Mario Vinciguerra, antifascista, redattore de Il Resto del Carlino, vi resterà nel 1931-1932 per oltre 20 mesi, come testimonia una lapide posta accanto all’ingresso dell’istituto. Con il passare degli anni il regime all’interno divenne sempre più rigido. Un detenuto trovato in possesso di un bottone venne punito con 10 giorni di isolamento. Un altro che aveva ingiuriato il Direttore sconterà tre mesi di cella di punizione, che a quel tempo erano nei sotterranei, sotto il piano stradale, con poca aria e scarsissima luce. Poste all’altezza dell’alveo del fiume Metauro, quando questi si ingrossava le acque si infiltravano nel terreno e, permeandolo, raggiungevano gli scantinati del carcere bagnando i pavimenti fino a lambire le celle di punizione (da qui il termine di Bagno Penale)
Nel 1941 il carcere di Fossombrone diventa Casa di Reclusione ordinaria per donne. Il personale di custodia viene sostituito con personale religioso femminile e dai registri di matricola dell’epoca risulta che l’istituto ospiterà fino a 199 detenute, quasi tutte ristrette per omicidio, procurato aborto, furto,truffa ed infanticidio. La provenienza geografica è quasi tutta del centro sud, casalinghe, contadine o cameriere, con una percentuale di  157 donne definite      “ povere” su 199 presenti. L’età media è tra i 20 ed i 30 anni.
Dopo il settembre del 1942 si ha una notevole presenza di detenute “d’oltre confine”, partigiane jugoslave condannate per attività antinazionale, propaganda sovversiva, partecipazione ad associazione sovversiva, partecipazione a banda armata, concorso in attentati contro le forze armate dello Stato. Queste detenute resteranno a disposizione della Polizia Segreta Tedesca di Firenze e del Comando Militare Tedesco di Lubijana e saranno scarcerate nel dicembre del 1943, mentre in carcere rimarranno una trentina di italiane, tutte ristrette per reati comuni.
Il 3 maggio del 1944 iniziano le incursioni aeree su Fossombrone con l’obiettivo di distruggere i due ponti sul Metauro ed isolare il paese. Il Direttore      chiede ed ottiene il trasferimento delle detenute e delle suore, che vengono tutte spostate nella Casa di Rieducazione Minorile di Via Raffaello ad Urbino.                                                             
Il 29 maggio del 1944 Fossombrone subisce un massiccio bombardamento ed il carcere riporta danni irreparabili, con la distruzione dello stesso muro di cinta. La circostanza determinerà un vero saccheggio da parte dei tedeschi e delle popolazioni limitrofe. 
Spariranno porte, infissi, serrature, suppellettili e tutto quello che era asportabile.
Ad agosto del ’44 le truppe alleate che occuperanno il carcere per farne un loro presidio temporaneo lo troveranno saccheggiato di tutto.
Bisognerà aspettare la fine della guerra per vederlo restituito al Ministero di Grazia e Giustizia che darà subito inizio ai lavori di ricostruzione, affidati all’Impresa Gentili di Fossombrone che li terminerà alla fine del 1947.
Il 12 settembre 1950 la Casa di Reclusione diventa Casa per Minorati Fisici e Psichici, una tipologia prevista dall’art.24 del Regolamento degli Istituti di Prevenzione e pena del 1931. Arrivano i primi “ condannati a pena diminuita per infermità psichica o per sordomutismo, per cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, gli ubriachi abituali e le persone dedite all’uso di sostanze stupefacenti, i condannati invalidi o affetti da malattie croniche”.
 Tale caratterizzazione resterà fino al 1976 circa e l’istituto, anche per adeguarsi alla nuova tipologia di detenuti, potenzierà sempre più le sue strutture sanitarie, fino a diventare in quel tempo uno dei Centri Clinici Penitenziari più famosi d’Italia.




QUEI TERRIBILI  ANNI ‘70
                       

 I primi “permessi premio”, tutto sommato ancora sperimentali, avevano creato fra i detenuti molte aspettative ed avevano contribuito ad allentare anche molte tensioni interne. Fra i detenuti minorati vi erano quasi una trentina di ergastolani, alcuni molto anziani, e tutti avevano fatto la domanda di permesso premio per andare a casa per qualche giorno.
Molti furono accompagnati dagli agenti alla fermata dell’autobus e dotati di biglietto. Dopo anni ed anni di carcere quel mondo non lo conoscevano più e non sapevano come muoversi.
Per le feste di Natale del 2006 il Magistrato di Sorveglianza, acquisito il nostro parere, aveva concesso oltre 120 permessi premio su 190 detenuti presenti, lasciando in carcere solo i detenuti ancora imputati o incompatibili, per condotta, con i requisiti di un permesso premio.
Per tutti noi, invece, le vacanze trascorsero lentamente, contando con ansia i giorni che mancavano al rientro, immaginando cosa sarebbe successo – in un’Italia traumatizzata dalle rivolte e dalle evasioni -  se i 120 detenuti di Fossombrone, alla scadenza, non si fossero presentati al portone d’ingresso. Rientrarono tutti, pieni di bagagli al seguito, accompagnati dai familiari o in taxi fin davanti al portone, allora ancora raggiungibile senza ostacoli del chek-point. In due non rientrarono, tra cui un ragazzo di Pescara di neppure trent’anni, ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri a Civitanova Marche.



L'EVASIONE DELLA MALEDETTA SERA DEL ‘77




 
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Il 1977 non era cominciato sotto i migliori auspici, con 13 evasioni a Treviso a tre giorni dal capodanno. Eravamo in pochi – ma solo perché avevamo un posto in prima fila -  ad aver capito che presto le carceri sarebbero state scelte dai terroristi come il punto di massimo scontro con lo “Stato-Padrone”.
E non è a dire che dei segnali forti non fossero stati già lanciati, con tutti quegli omicidi e stragi da una parte all’altra del Paese.
L’albo della cronaca nera era già pieno di trofei: dalla strage di Piazza Fontana (12.12.1969) all’omicidio del Commissario Calabresi (17.5.1972), dalla strage dell’Italicus (4.8.1974) al sequestro di Vittorio Vallerino Gancia, re degli spumanti (4.6.1975), dall’uccisione del Giudice Coco a Genova (8.6.1976) a quella di Vittorio Occorsio a Roma (10.7.1976), dalla bomba di Piazza della Loggia a Brescia (28.5.1974) all’evasione di Renato Curcio (18.2.1975) prelevato dai suoi complici dopo un attacco armato al carcere di Casale Monferrato, dove era ristretto.
E questi erano solo gli episodi maggiori. Nessuno mai avrebbe potuto anticiparmi che gli autori di queste storie, da protagonisti di cronaca, sarebbero ben presto diventati per me, di lì a poco, interlocutori diretti e che avremmo vissuto un pezzo della nostra vita insieme, chi al di qua e chi al di là dei cancelli.
Tanti, anche nelle stanze del potere, relegarono quei fatti a spietata cronaca nera e non capirono che invece si andava generalizzando un conflitto politico culturale che si ramificava in tutti i settori sociali per arrivare a quello che sarebbe diventato il  più duro scontro tra le classi sociali del dopoguerra.
All’inizio di quel famoso ’77 era nata anche un’altra formazione terroristica “Prima Linea” cui avrebbero aderito, secondo gli inquirenti, circa 2000 persone. Un’organizzazione cui verranno attribuiti, nei soli primi tre anni, 101 attentati con 18 morti e 23 feriti.

Aldo Maturo -1977
Il 1977 è stato unanimemente considerato “l’anno più buio del decennio di piombo” e se è l’anno che ha segnato la vita del Paese ha rappresentato anche una svolta storica per il carcere di Fossombrone. Qui gli avvenimenti di cronaca nera nazionale non ci sembravano molto lontani perché tra i detenuti presenti – arrivati dopo le rivolte di altre città – c’erano già alcuni terroristi che avevano politicizzato altri. Molte richieste collettive giornaliere ci pervenivano già nello stile che poi avrebbe caratterizzato i “documenti” di rivendicazione pubblicati dai giornali dopo ogni attentato.
Verso la fine del 1976 le evasioni dalle carceri avevano raggiunto quasi il ritmo di una ogni ventiquattro ore e noi  facevamo gli scongiuri consapevoli che il  vecchio carcere, in quel periodo, era assolutamente inidoneo, per carenze strutturali e di organico, a far fronte alle esigenze di sicurezza connesse alla presenza di un centinaio di detenuti distintisi nelle rivolte di mezza Italia.
Quel pomeriggio del 5 gennaio 1977 ne avevamo parlato a lungo con il Comandante Canale e con il Dr.Luigi Bellone, medico del carcere. L’evasione di Treviso con 13 evasi, due giorni prima, ci aveva particolarmente allarmati. Non sottovalutavamo il pericolo e ci sentivamo come quelle guarnigioni in prima linea che avendo perso di fatto i contatti con i generali accampati in posti lontani e sicuri, sanno che in caso di necessità dovranno fare tutto da sole.
La locale Caserma dei Carabinieri aveva  5 o 6 uomini, la Compagnia Carabinieri era a Fano e la Polizia a Pesaro, un’eternità in caso di intervento. La tensione era alta perché  nonostante l’arrivo di oltre 100 detenuti rivoltosi il vecchio carceron dei Minorati era rimasto fermo nel tempo, con tutti i suoi limiti strutturali, con limitate modifiche alla vita interna e soprattutto con un organico di pochi uomini, penalizzato in parte dall’età e dalle malattie.
Su una cosa poteva contare: un Direttore nuovo a tempo pieno, un Comandante dalla grande esperienza e la compattezza  e la collaudata professionalità del  personale disponibile, assolutamente affidabile.
Quella mattina avevamo fatto partire due detenuti importanti, Laudovino De Sanctis, detto Lallo lo Zoppo e Antonio Mancino. Non voleva partire De Sanctis, chiese di rinviare la partenza, protestò, disse che avrebbe dovuto fare colloquio. Verificammo che non era vero perché lo aveva già fatto uno o due giorni prima, poi la sua insistenza ci insospettì, lo spostammo nell’unica cella di isolamento e verso mezzogiorno partì, con la macchina di Giannino Monaldi e tre carabinieri. Giannino, una vita col sorriso passata all’angolo tra il Taglio e il Corso, lì dove Fossombrone aveva il suo salotto, punto obbligato del passeggio e del gossip paesano.  Con la sua auto e quella del fratello aveva in quegli anni il subappalto per la “traduzione” dei detenuti. Una pura follia se avesse considerato il rischio che correva  trasportando  personaggi così diversi dai vecchi minorati.
Qualche ora più tardi  scatterà la clamorosa evasione che segnerà la storia dell’istituto per gli anni futuri.
Poco dopo le 7 di sera, prima della chiusura delle celle, il detenuto Zanetti si avvicina alla porta tra la rotonda e l’atrio esterno. Ha in mano una domandina e chiede di telefonare.  Il giovanissimo agente ausiliario M.B. apre lo spioncino, guarda, controlla, pensa che è tutto in regola ed apre per farlo accedere al telefono detenuti posto nell’atrio interno. All’ultimo scatto il cancello gli sbatte sul viso, spinto da sei detenuti rimasti incollati al muro per non essere visti dal piccolo spioncino.
Attimi infiniti. Lo sequestrano e gli tolgono le chiavi richiudendosi il cancello alle spalle.  I pochi agenti in servizio tra i vari piani detentivi  quando capiscono è troppo tardi e restano di fatto impossibilitati ad intervenire perché i detenuti li hanno  chiusi dentro   ( o almeno così pensavano).
Ermes Zanetti (alla sua terza evasione), Paolo Olfredi, Antonio Paoloni e tre brigatisti, Massimo Maraschi, Claudio Vicinelli e Antonio Marocco, militanti delle BR, con l’agente sequestrato escono dall’atrio interno e si dirigono verso la Mensa, irrompendovi all’improvviso per immobilizzare e sequestrare gli agenti Marzioni, Telese, Ciavattella e Di Giacomo, disarmati, seduti tranquillamente ai tavoli in un momento di pausa per la cena serale.
I detenuti sono armati ed è facile sopraffarli. Ne legano alcuni, prendono dalla mensa altri coltelli e vanno verso la portineria facendosi scudo con l’App. Marzio Marzioni costretto a precederli  con la pistola puntata alla schiena. Nell’atrio esterno si dividono: quattro di loro, con l’ostaggio, proseguono verso la portineria mentre Vicinelli e Maraschi si attardano presumibilmente per andare a  vedere chi c’è nella vicina cella di isolamento. Forse cercano De Sanctis o forse puntano a portarsi via, per solidarietà, chiunque si fosse trovato  in quell’unica cella di isolamento. Sanno che la libertà è  a pochi metri e pensano che nessuno ormai li avrebbe potuti fermare, visto che le guardie che avrebbero dovuto fermarli sono rimaste chiuse nella Rotonda del carcere, impossibilitate ad uscire perché le chiavi le hanno loro. Un ritardo e  una ingenuità che  pagheranno con la libertà.
Intanto i detenuti Zanetti, detenuto per furto e rapina, Olfredi, condannato a 23 anni per rapina, Marocco, detenuto per detenzioni da armi da guerra e Paoloni, detenuto per rapina – età media 25 anni -  facendosi scudo con l’App.Marzioni giungono davanti al cancello che immette in portineria, dove è di servizio l’App.Ferri Domenico. Marzioni è costretto a bussare, Ferri apre lo spioncino, vede il viso del collega, apre. Troppo tardi. Il copione si ripete. I quattro irrompono con l’ostaggio in portineria, lo spingono a terra, aggrediscono l’App.Ferri per sottrargli le chiavi del portone esterno, l’ultimo ostacolo prima della libertà. Ferri è travolto, cade a terra, si rialza immediatamente e nonostante i quattro avessero un coltello ed una pistola, reagisce ingaggiando una colluttazione e badando bene di tenere ben salde le chiavi. I quattro gli sono sopra, lo picchiano, gli strappano le chiavi, aprono il grosso portone di legno e svaniscono nel buio della sera, lasciandolo ferito e tramortito. Un po’ più avanti, nel parcheggio - accerteranno poi gli inquirenti - li attende una Fiat 127 con un nastro isolante sul lunotto posteriore, messo dai complici per farla identificare dai fuggitivi.
All’interno del carcere però le cose non stanno andando come i detenuti hanno previsto. Le guardie rimaste chiuse all’interno delle sezioni detentive, dopo un attimo di comprensibile sbandamento, studiano la situazione ed aprono una porticina secondaria della Rotonda che porta all’esterno, verso le lavorazioni, la lavanderia e un magazzino dell’intercinta di Levante. Corrono, corrono, aprono il magazzino, escono dalla parte opposta, si precipitano verso la Portineria e vi giungono proprio nel momento in cui i detenuti Vicinelli e Maraschi, trovata vuota la cella di isolamento, stanno per dirigersi verso la portineria. Mancano dieci metri alla loro libertà ma il film della loro evasione si ferma proprio qui.
Vedono le guardie arrivare di corsa, accelerano il passo, sono gli uni di fronte agli altri davanti alla portineria. Vicinelli ha un coltello puntato alla gola dell’agente Telese e minaccia di ucciderlo se non li lasciano passare. Maraschi inciampa, sono attimi di esitazione poi la decisione. Gli agenti scattano in maniera fulminea, coraggiosa, temeraria. Stefano Carbonari, Domenico Guercioni, Antonio Mottola e Silvio  Angeloni si lanciano verso i due ignorando che quelli sono armati di coltelli ed hanno il collega in ostaggio. Alcuni di loro hanno fatto in tempo a raccogliere a terra qualche ramo di un albero tagliato quella stessa mattina.
La lotta è furibonda, cruenta, a mani nude contro i coltelli dirà la stampa. Sono minuti interminabili ma, alla fine, i due detenuti vengono bloccati e riportati all’interno. Vicinelli viene messo in cella di isolamento e Maraschi viene portato in infermeria da dove sarà trasferito immediatamente al reparto di Neurochirurgia di Ancona per le gravi ferite riportate.
Le ore che seguono sono frenetiche e scandiranno i giorni successivi  con un ritmo infernale.
Prima ancora che giungano sul posto i carabinieri della vicina stazione, gli agenti si organizzano spontaneamente, prendono i mitra in armeria ed escono con le loro auto per formare dei posti di blocco agli snodi principali che portano a Fossombrone.
 Arrivo sul posto alle 19,35 – poco meno di cinque minuti dai fatti – e vengo informato dallo stesso personale che fino a pochi minuti prima aveva lottato. Sono uomini  sconvolti, feriti, con le camice strappate e  insanguinate. Urlano e mi chiedono l’autorizzazione a ritirare altri mitra per uscire di pattuglia.
L’allarme, via telefono, intanto è partito per carabinieri e polizia e in meno di mezz’ora dalla vicina caserma, dalla Compagnia di Fano, da Urbino, dalla Questura di Pesaro, arrivano decine di pattuglie che fanno scattare intorno al carcere un anello di sicurezza impenetrabile,  anche perché voci incontrollate dicono che, all’interno, il carcere è  in mano ad altri rivoltosi. Da Urbino si precipita giù il Dott. Gaetano Savoldelli Pedrocchi, sostituto Procuratore – l’uomo che da quella sera sarà onnipresente in ogni emergenza del supercarcere - che assume immediatamente la direzione delle indagini restando sul posto fino all’indomani. Dopo qualche ora sul posto ci sono le telecamere delle TV nazionali mentre le linee telefoniche impazziscono e non riescono a smaltire le decine e decine di telefonate provenienti dai sonnacchiosi  palazzi romani e dalle testate giornalistiche di tutta Italia.
Sono ore drammatiche: da una parte il carcere viene immediatamente setacciato e perquisito da cima a fondo e dall’altra si teme per la vita di Maraschi che nella colluttazione con gli agenti è stato gravemente ferito.
 
Il Direttore e gli agenti promossi per meriti eccezionali(cliccareper ingrandire)
La notizia scuote l’opinione pubblica nazionale. Gli agenti, su proposta di chi scrive, vengono premiati e promossi sul campo con avanzamento al grado superiore. Il nome di Fossombrone rimane sui giornali e sulle telescriventi di tutta Italia per giorni e giorni.




FOSSOMBRONE: NASCE LA FORTEZZA
 
L’evasione si inserisce in un quadro di altre evasioni e rivolte ed è così che il Governo decide di creare cinque istituti dove trasferire gli elementi più pericolosi. Con Decreto interministeriale firmato dal Ministro degli Interni, della Difesa e di Grazia e Giustizia,viene conferito al Gen. Carlo Alberto dalla Chiesa l’incarico di coordinare la sicurezza di tutti i penitenziari e di individuare cinque istituti ad altissima sicurezza dove trasferire il gotha della criminalità comune e del terrorismo. Dalla Chiesa in meno di un mese gira l’Italia, guarda, valuta le strutture, incontra i Direttori: la scelta cade su Fossombrone, su cui si sono appena spenti i riflettori dell’evasione.
 
Da febbraio a luglio del ’77 l’istituto volta pagina e diventa un unico cantiere stravolto da lavori di potenziamento e modifica protrattisi oltre l’ora X. Sofisticati sistemi di allarme,  il camminamento di ronda su Via Leopardi, vetri antiproiettile dappertutto,  la portineria a comparti interbloccati, la caserma prefabbricata in 3 mesi, i cortili di passeggio, le sale di tempo libero, le celle di isolamento, i pannelli solari. Nasce in pochi mesi quella che la stampa nazionale definirà, con altri quattro carceri, una fortezza blindata.
 
Il 21 luglio del 1977 i forsempronesi vengono svegliati all’alba dai motori di due elicotteri che volteggiano sulle case come falchi, mentre giù nelle strade posti di blocco chiudono il paese in una morsa di pattuglie in divisa e in borghese. La gente insonnolita che scruta tra gli scuroni socchiusi vede divise e mitra dappertutto e non si rende conto di cosa stia succedendo, anche se per tutti il pensiero corre al carcere.
A poco a poco, quando le ombre lasciano spazio ai primi raggi di sole,  si sentono in lontananza sempre più distinte le sirene impazzite di decine e decine di auto che precedono e seguono i pullman con i nuovi  detenuti ritenuti dal Ministero tra i più pericolosi d’Italia. Un elicottero controlla il paese girando a cerchio sui tetti ed uno si piazza sul carcere in stand-by per ore ed ore, mentre di sotto 174 detenuti cominciano a scendere dai pullman e 174 si preparano a lasciare il carcere per altre destinazioni più tranquille. 

Tutte le operazioni si svolgono col sottofondo dei "rotori" degli elicotteri, che con le gigantesche pale,  a turno, spazzano il tetto del carcere, invisibili nel loro roteare, mentre nelle ultime celle i martelli pneumatici lacerano l’aria  per fissare al pavimento gli ultimi letti di ferro. Un caldo  pazzesco, una tensione altissima, i nervi a fior di pelle. Nella “Rotonda” due montagne di zaini, di qua quelli in uscita di là  quelli in entrata.
La lettura dei nomi sui fascicoli è da brivido e nella mente scorre, come su una lavagna luminosa, la cronaca nera degli ultimi anni. Soltanto la calma e l’altissima professionalità manifestata da tutto il personale, reduce da una notte insonne  in attesa del grande evento, evita  qualunque incidente e qualunque provocazione: tutti si muovono come su un immenso palcoscenico quasi a recitare la parte di un copione non scritto, certi che qualunque errore avrebbe innescato una scintilla dagli esiti imprevedibili.
Poco prima di pranzo  cala il silenzio, surreale, e il carcere resta per la prima volta solo con i suoi nuovi ospiti in una convivenza tutta da inventare, mentre fuori i carabinieri di Dalla Chiesa imballano i motori delle camionette con i loro infiniti giri di ronda. Dentro, al di qua e al di là dei cancelli, si cerca di immaginare il futuro - senza ottimismo -  all’ombra di quelle grosse mura di pietra del Furlo che diventeranno testimoni silenziose di tante cronache diventate troppo presto storia.

( tratto da "Nascita di una fortezza " di Aldo Maturo, inserito nel  libro "L'attività motoria nelle carceri italiane" di Federici-Testa, Facoltà di Scienze della Formazione Università di Urbino - Armando Editore 2010)