Il 21 luglio del 1977 si sentono in lontananza, sempre più distinte, le sirene impazzite di decine e decine di auto che precedono e seguono i pullman con i nuovi detenuti ritenuti dal Ministero tra i più pericolosi d’Italia. Un elicottero controlla il paese girando a cerchio sui tetti ed uno si piazza sul carcere in stand-by per ore ed ore.
ex Direttore C.R. Fossombrone 1976-1981
Il
“carceron”, la casa penale, le Guardie del Bagno, i Tiracatorc’. Non erano termini dispregiativi quelli che sentivo per
la prima volta in quei lontani giorni di maggio 1976, catapultato a Fossombrone
dagli Istituti Penitenziari di Roma Rebibbia per rilevare un anziano direttore,
in missione bisettimanale da Pescara, e prendere in mano le sorti di questo
vecchio istituto che, in pochi mesi, aveva accantonato una tradizione
trentennale di Casa per Minorati Fisici per tuffarsi nel caos di un carcere con
200 detenuti, metà minorati e metà provenienti da altri penitenziari, spesso resi
inagibili dalle rivolte che avevano caratterizzato il pianeta carcere in quei
primi anni ’70.
Alcuni termini per
me, campano, erano incomprensibili ma capivo che non potevano essere offensivi,
perché ‘el carceron faceva parte della vita del paese e in molte famiglie c’era
un marito, un figlio, un cognato, un genero, un nipote, un suocero che lavorava
o avrebbe voluto lavorare “laggiù”, tra quelle mura che allora non avevano
tanti misteri. La domenica mattina erano tante le persone che andavano a passeggiare
sul viale del carcere, trovando il vecchio portone in legno socchiuso, l’agente
sulla soglia, come solo allora si poteva immaginare, prima che “gli anni di
piombo” blindassero quelle mura proiettandole in prima linea.
Il carceron non
aveva misteri per il paese e, con la CIA di Villa San Martino, era solo il
luogo che dava lavoro a tante persone, dignitose, affidabili, tutto sommato
fortunate, che la sera passeggiavano con la famigliola in centro sotto i
portici “ricchi” per fare la “vasca”, gente perfettamente integrata, accettata,
benvoluta.
Quel
Carceron era un’istituzione per il paese, anzi l’Istituzione, e la sua storia
partiva da molto lontano, anche se non è possibile risalire con certezza ai
primi atti, sperduti in qualche armadio dei polverosi archivi del Reale
Genio Civile.
1979 |
Una vita intramurale
abbastanza serena, pochi gli episodi di intemperanza fino ad allora, con quei
detenuti “minorati fisici” sostanzialmente tranquilli perchè consapevoli di
vivere una carcerazione privilegiata rispetto all’inferno delle altre carceri
italiane.
Circa sessanta
uomini, tra agenti e sottufficiali, un Comandante ed un ragioniere era tutto
quello su cui si poteva contare in una costruzione che mostrava tutti i suoi
anni. Alloggi di fortuna per gli agenti, uffici appesantiti da vecchi
arredi, celle prive di riscaldamento, un camminamento di ronda che
copriva solo tre lati del muro di cinta, sormontato da garitte inagibili,
insicure, prive di citofoni e con i vetri rotti. Di notte poche lampadine
pretenziose puntellavano gli spazi interni ed esterni del carcere creando
piccoli coni di luce alternati ad ancor più pericolose zone d’ombra. Tutta la
Via Leopardi, la strada che costeggia l’ingresso principale, era allora senza
camminamento di ronda, delimitata solo dal muro alto poco più di quattro
metri alla cui sommità i lastroni in pietra erano stati disallineati
dalle intemperie e da rigogliosi ciuffi d’erba.
UNA STORIA
LUNGA 150 ANNI
Carcere di Fossombrone (foto Maturo) |
Di
certo i primi progetti rinvenuti risalgono al 1870 e riguardano il “braccio di
levante” (attuale Sezione di Levante) alla cui costruzione aveva chiesto di
partecipare l’Impresa di Giuseppe Nicolini, che già da circa 10 anni si
era aggiudicati i lavori del braccio di Ponente ed aveva aperto così il primo
cantiere per la costruzione del carcere lì, su quell’area pianeggiante di circa
10.000 mq. appartenente ai principi Ruspoli, sovrastata dalla Cittadella, a
pochi metri dal Metauro che, oggi come allora, scorreva silenzioso 20 metri più
sotto. La costruzione, programmata dallo Stato pontificio, avrebbe
rappresentato per la zona “gran ventura” con indubbi riflessi economici.
Col
primo appalto, come detto, era iniziata la costruzione della Sezione che
affaccia su Via Torricelli, poi detta Sezione di Ponente. Ma nel 1870,
nonostante l’Impresa Nicolini avesse ancora i lavori in corso, era stata
l’Impresa Nardi ad aggiudicarsi il secondo lotto ed a firmare, davanti al
Prefetto di Pesaro, il contratto per la costruzione della Rotonda e della
Sezione di Levante. Nel capitolato si stabilisce che “tutto il pietrame per le
mura sarà tratto dalla cava del Sasso”, vicino al paese, che “la calce sarà fatta
con il Torrente Tarugo”, affluente del Metauro, dal quale ultimo sarebbe stata
estratta la sabbia. I lavori della Sezione Centrale, da adibire ad Infermeria,
hanno inizio invece nel 1887 e dopo due anni una perizia di variante – mai
realizzata – ne prevederà l’ampliamento per portarla a 216 celle con
prolungamento a Nord e dopo aver espropriato altri 7.000 mq. di terreno dei
principi Ruspoli.
L’istituto,
dopo circa 30 anni, assunse la configurazione attuale, a croce latina, con la
palazzina direzionale a sud, parallela alle due sezioni detentive.
Inizialmente
costituito da 180 posti in cella singola e 20 in cameroncino, venne adibito a
Casa di segregazione cellulare, secondo gli orientamenti penitenziari del
tempo, ostili alla vita comunitaria dei detenuti.
Tale destinazione resterà
per molti anni, con una disciplina interna molto rigida, solo in parte
alleviata dall’attivazione di laboratori di sarti, calzolai, falegnami e
fabbri. Quasi inesistenti i rapporti con l’esterno. Basti pensare che in un
solo registro verranno annotati i colloqui con le famiglie svoltisi in 34 anni.
Con
il Codice Rocco del 1932 avviene la trasformazione in Casa di Reclusione per
delinquenti abituali, professionali e per tendenza ma in realtà non ci si
astenne dal custodirvi anche detenuti politici. Mario Vinciguerra,
antifascista, redattore de Il Resto del Carlino, vi resterà nel 1931-1932 per
oltre 20 mesi, come testimonia una lapide posta accanto all’ingresso
dell’istituto. Con il passare degli anni il regime all’interno divenne sempre
più rigido. Un detenuto trovato in possesso di un bottone venne punito con 10
giorni di isolamento. Un altro che aveva ingiuriato il Direttore sconterà tre
mesi di cella di punizione, che a quel tempo erano nei sotterranei, sotto il
piano stradale, con poca aria e scarsissima luce. Poste all’altezza dell’alveo
del fiume Metauro, quando questi si ingrossava le acque si infiltravano nel
terreno e, permeandolo, raggiungevano gli scantinati del carcere bagnando i
pavimenti fino a lambire le celle di punizione (da qui il termine di Bagno
Penale)
Nel
1941 il carcere di Fossombrone diventa Casa di Reclusione ordinaria per donne.
Il personale di custodia viene sostituito con personale religioso femminile e
dai registri di matricola dell’epoca risulta che l’istituto ospiterà fino a 199
detenute, quasi tutte ristrette per omicidio, procurato aborto, furto,truffa ed
infanticidio. La provenienza geografica è quasi tutta del centro sud,
casalinghe, contadine o cameriere, con una percentuale di 157 donne
definite “ povere” su 199 presenti. L’età media è
tra i 20 ed i 30 anni.
Dopo
il settembre del 1942 si ha una notevole presenza di detenute “d’oltre
confine”, partigiane jugoslave condannate per attività antinazionale,
propaganda sovversiva, partecipazione ad associazione sovversiva,
partecipazione a banda armata, concorso in attentati contro le forze armate
dello Stato. Queste detenute resteranno a disposizione della Polizia Segreta
Tedesca di Firenze e del Comando Militare Tedesco di Lubijana e saranno scarcerate
nel dicembre del 1943, mentre in carcere rimarranno una trentina di italiane,
tutte ristrette per reati comuni.
Il 3 maggio del 1944
iniziano le incursioni aeree su Fossombrone con l’obiettivo di distruggere i
due ponti sul Metauro ed isolare il paese. Il
Direttore chiede ed ottiene il trasferimento
delle detenute e delle suore, che vengono tutte spostate nella Casa di
Rieducazione Minorile di Via Raffaello ad
Urbino.
Il
29 maggio del 1944 Fossombrone subisce un massiccio bombardamento ed il carcere
riporta danni irreparabili, con la distruzione dello stesso muro di cinta. La
circostanza determinerà un vero saccheggio da parte dei tedeschi e delle
popolazioni limitrofe.
Spariranno
porte, infissi, serrature, suppellettili e tutto quello che era asportabile.
Ad
agosto del ’44 le truppe alleate che occuperanno il carcere per farne un loro
presidio temporaneo lo troveranno saccheggiato di tutto.
Bisognerà
aspettare la fine della guerra per vederlo restituito al Ministero di Grazia e
Giustizia che darà subito inizio ai lavori di ricostruzione, affidati
all’Impresa Gentili di Fossombrone che li terminerà alla fine del 1947.
Il
12 settembre 1950 la Casa di Reclusione diventa Casa per Minorati Fisici e
Psichici, una tipologia prevista dall’art.24 del Regolamento degli Istituti di
Prevenzione e pena del 1931. Arrivano i primi “ condannati a pena diminuita per
infermità psichica o per sordomutismo, per cronica intossicazione da alcool o
da sostanze stupefacenti, gli ubriachi abituali e le persone dedite all’uso di
sostanze stupefacenti, i condannati invalidi o affetti da malattie croniche”.
Tale
caratterizzazione resterà fino al 1976 circa e l’istituto, anche per adeguarsi
alla nuova tipologia di detenuti, potenzierà sempre più le sue strutture
sanitarie, fino a diventare in quel tempo uno dei Centri Clinici Penitenziari
più famosi d’Italia.
QUEI TERRIBILI
ANNI ‘70
I primi
“permessi premio”, tutto sommato ancora sperimentali, avevano creato fra i
detenuti molte aspettative ed avevano contribuito ad allentare anche molte tensioni
interne. Fra i detenuti minorati vi erano quasi una trentina di ergastolani,
alcuni molto anziani, e tutti avevano fatto la domanda di permesso premio per
andare a casa per qualche giorno.
Molti furono
accompagnati dagli agenti alla fermata dell’autobus e dotati di biglietto. Dopo
anni ed anni di carcere quel mondo non lo conoscevano più e non sapevano come
muoversi.
Per le feste di
Natale del 2006 il Magistrato di Sorveglianza, acquisito il nostro parere,
aveva concesso oltre 120 permessi premio su 190 detenuti presenti, lasciando in
carcere solo i detenuti ancora imputati o incompatibili, per condotta, con i
requisiti di un permesso premio.
Per tutti noi,
invece, le vacanze trascorsero lentamente, contando con ansia i giorni che
mancavano al rientro, immaginando cosa sarebbe successo – in un’Italia
traumatizzata dalle rivolte e dalle evasioni - se i 120 detenuti di
Fossombrone, alla scadenza, non si fossero presentati al portone d’ingresso.
Rientrarono tutti, pieni di bagagli al seguito, accompagnati dai familiari o in
taxi fin davanti al portone, allora ancora raggiungibile senza ostacoli del
chek-point. In due non rientrarono, tra cui un ragazzo di Pescara di neppure
trent’anni, ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri a Civitanova Marche.
L'EVASIONE DELLA MALEDETTA SERA DEL ‘77
FOSSOMBRONE: NASCE LA FORTEZZA
L’evasione
si inserisce in un quadro di altre evasioni e rivolte ed è così che il
Governo decide di creare cinque istituti dove trasferire gli elementi più
pericolosi. Con Decreto interministeriale firmato dal Ministro degli Interni,
della Difesa e di Grazia e Giustizia,viene conferito al Gen. Carlo Alberto dalla
Chiesa l’incarico di coordinare la sicurezza di tutti i penitenziari e di
individuare cinque istituti ad altissima sicurezza dove trasferire il gotha
della criminalità comune e del terrorismo. Dalla Chiesa in meno di un mese
gira l’Italia, guarda, valuta le strutture, incontra i Direttori: la scelta
cade su Fossombrone, su cui si sono appena spenti i riflettori dell’evasione.
Da
febbraio a luglio del ’77 l’istituto volta pagina e diventa un unico cantiere
stravolto da lavori di potenziamento e modifica protrattisi oltre l’ora X.
Sofisticati sistemi di allarme, il camminamento di ronda su Via
Leopardi, vetri antiproiettile dappertutto, la portineria a comparti
interbloccati, la caserma prefabbricata in 3 mesi, i cortili di passeggio, le
sale di tempo libero, le celle di isolamento, i pannelli solari. Nasce in
pochi mesi quella che la stampa nazionale definirà, con altri quattro
carceri, una fortezza blindata.
Il 21 luglio del
1977 i forsempronesi vengono svegliati all’alba dai motori di due elicotteri
che volteggiano sulle case come falchi, mentre giù nelle strade posti di blocco
chiudono il paese in una morsa di pattuglie in divisa e in borghese. La gente
insonnolita che scruta tra gli scuroni socchiusi vede divise e mitra
dappertutto e non si rende conto di cosa stia succedendo, anche se per tutti il
pensiero corre al carcere.
A poco a poco,
quando le ombre lasciano spazio ai primi raggi di sole, si sentono in
lontananza sempre più distinte le sirene impazzite di decine e decine di auto
che precedono e seguono i pullman con i nuovi detenuti ritenuti dal
Ministero tra i più pericolosi d’Italia. Un elicottero controlla il paese
girando a cerchio sui tetti ed uno si piazza sul carcere in stand-by per ore ed
ore, mentre di sotto 174 detenuti cominciano a scendere dai pullman e 174 si
preparano a lasciare il carcere per altre destinazioni più tranquille.
Tutte le operazioni
si svolgono col sottofondo dei "rotori" degli elicotteri, che con le
gigantesche pale, a turno, spazzano il tetto del carcere, invisibili nel
loro roteare, mentre nelle ultime celle i martelli pneumatici lacerano
l’aria per fissare al pavimento gli ultimi letti di ferro. Un caldo
pazzesco, una tensione altissima, i nervi a fior di pelle. Nella “Rotonda” due
montagne di zaini, di qua quelli in uscita di là quelli in entrata.
La lettura dei nomi
sui fascicoli è da brivido e nella mente scorre, come su una lavagna luminosa,
la cronaca nera degli ultimi anni. Soltanto la calma e l’altissima
professionalità manifestata da tutto il personale, reduce da una notte
insonne in attesa del grande evento, evita qualunque incidente e
qualunque provocazione: tutti si muovono come su un immenso palcoscenico quasi
a recitare la parte di un copione non scritto, certi che qualunque errore
avrebbe innescato una scintilla dagli esiti imprevedibili.
Poco prima di
pranzo cala il silenzio, surreale, e il carcere resta per la prima volta
solo con i suoi nuovi ospiti in una convivenza tutta da inventare, mentre fuori
i carabinieri di Dalla Chiesa imballano i motori delle camionette con i loro
infiniti giri di ronda. Dentro, al di qua e al di là dei cancelli, si cerca di
immaginare il futuro - senza ottimismo - all’ombra di quelle grosse mura
di pietra del Furlo che diventeranno testimoni silenziose di tante cronache
diventate troppo presto storia.
( tratto da
"Nascita di una fortezza " di Aldo Maturo, inserito nel libro
"L'attività motoria nelle carceri italiane" di Federici-Testa,
Facoltà di Scienze della Formazione Università di Urbino - Armando Editore
2010)