Carcere San Vittore - Milano - Foto Dossier Maturo |
Aldo Maturo
Primo
Dirigente Ministero della Giustizia
Un uomo sta
passeggiando lungo la riva di un fiume, quando si accorge che c’è una persona
che sta affogando, lottando inutilmente contro le rapide. Improvvisamente si
avvede che dall’altra parte della riva un pescatore si è nel frattempo tuffato
in acqua nel generoso tentativo di raggiungere il disgraziato che sta
affogando: con fatica riesce ad agguantarlo e a trascinarlo a terra, ove gli
pratica la respirazione bocca a bocca, salvandolo.
Ma dopo pochi
minuti si ripete una situazione analoga: un altro uomo rischia di soccombere
nel fiume e il medesimo pescatore si getta in suo aiuto e ancora una volta
riesce nel suo eroico intento.
Ma in breve di nuovo la situazione si ripete, una due tre volte ancora, fino a
quando il pescatore, di fronte ad un altro in pericolo di vita, invece di
buttarsi in acqua comincia a correre risalendo la corrente del fiume.
Stupito, lo
spettatore lo ferma chiedendogli: ” Ma che stai facendo? Perché non cerchi di
salvare quel disgraziato come hai fatto con gli altri?”.
"Questa
volta - risponde il pescatore - voglio andare a vedere chi diavolo getta in
acqua questi uomini”.
La storia di
Saul Alinsky rappresenta in maniera plastica la frustrazione di quanti lavorano
nel mondo dell’emarginazione rimettendo in discussione, ogni giorno, il proprio
lavoro di fronte alle poche vittorie ed alle tante sconfitte. La cosa è ancor
più evidente nel carcere, che ogni tanto esce dalle nebbie che lo circondano
per finire sotto i riflettori.
Lo vediamo in questi
giorni con gli spazi sulla stampa occupati dal problema del sovraffollamento.
Dubito che qualche gruppo politico assuma disinvoltamente la paternità di un
provvedimento clemenziale, notoriamente sgradito alla maggior parte
dell’elettorato poco sensibile ai “rumori” del carcere.
Di segnali concreti, a chi vive nel carcere di qua o al di là delle
sbarre, non ne arrivano molti mentre l’arrivo quotidiano di centinaia e
centinaia di arrestati è un dato reale e statistico. Oltre il 50% dei detenuti sono
in custodia cautelare, le presenze sono oltre 67.600 (al 31.3.2012) su
45.320 posti letto disponibili, tanto che si è pensato anche di riaprire i
penitenziari dismessi delle isole ignorando che non c’è assolutamente
possibilità di farlo per mancanza di personale.
L’esperienza del passato - anche quella dell’ultimo indulto del 2006 - ci
ha insegnato che, a legislazione o giurisprudenza immutata, nello spazio di un
paio d’anni il problema del sovraffollamento si ripropone nella sua drammaticità.
Molti “indultati”, infatti, sono ritornati in carcere, per naturale
predisposizione a violare disinvoltamente le leggi alla ricerca di una vita più
facile o per scelte condizionate dall’impossibilità di rientrare in una società
che apre periodicamente le porte del carcere ma, una volta fuori, chiude
disinvoltamente quelle dell’accoglienza e dell’aiuto al reinserimento.
D’altra parte
approvare un’amnistia è praticamente impossibile visto che è necessaria una
maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera e, con
le divisioni esistenti tra i partiti, la cosa sembra allo stato utopistica.
Il tema carcere per alcuni diventa merce elettorale, anche se dietro la
demagogia, dietro le quinte dei convegni e dei dibattiti televisivi, c’è il
destino di oltre 67.000 detenuti giornalmente “residenti” cui si aggiungono i
drammi di altrettante famiglie. Senza contare che in un anno sono quasi 100.000
i “pendolari” del carcere o quelli che soggiornano per pochi giorni o ore nei
penitenziari. Sono solito paragonare le carceri ad una gigantesca pentola a
pressione che nessuno può pensare di scoprire all’improvviso dopo aver tenuto
per anni il fuoco acceso ed il coperchio chiuso per non sentirne la
puzza.
Ne sono convinto
anche se è indubbio che vi è una costante ed insanabile contraddizione tra una
sacrosanta esigenza di sicurezza che sale dal Paese e la necessità di maggiori
investimenti in termini di risorse umane e finanziarie per rendere decorose le
nostre strutture penitenziarie.
Per chi ci lavora è ormai abituale vedere un carcere rattoppato a causa di una
disattenzione storica ed invero politicamente trasversale. Da sempre si fanno i
conti della serva con un bilancio che a stento e male assicura la gestione del
quotidiano.
L’emergenza finanziaria che caratterizza il Paese non consente di aspettarsi di
più per il carcere. Ma allora non bisogna aspettarsi di più dal carcere, questo
mondo oscuro che, come una discarica, periodicamente si pensa di bonificare con
soluzioni tampone. Per le funzioni di questa istituzione va preso in
considerazione un “investimento” continuo perché un carcere solo custodiale è
un carcere violento e continuerà a restituire cittadini violenti in un processo
di reciproca irreversibile autoalimentazione che ne accentua il fallimento.
Un
carcere a dimensione d’uomo, invece, non è una contraddizione in termini, ma è
un luogo in cui la società tenta doverosamente un investimento sull’uomo,
sapendo in ogni caso che non è possibile radiografare la mente umana e quindi a
volte può esserci un prezzo da pagare. In tal caso bisognerebbe
ricordare, con Don Gelmini, che fa più rumore un albero che cade che cento
alberi che crescono. Questo il dilemma. Basta scegliere, come il
pescatore di Alinsky: o si nuota tutti insieme per salvare il maggior numero di
quelli che affogherebbero o si va sul ponte a vederli buttar giù.