giovedì 5 luglio 2012

BORSELLINO: LA VERITA' CHE NESSUNO VUOLE VEDERE

  

Alla fine dell'articolo c'è la copia del Rapporto dei Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) dei carabinieri, datato 19 giugno 1992, inviato al Comando Generale dell’Arma, con invito ad avvertire subito anche i Ministeri della Difesa, dell’Interno e della Giustizia, per allertare a loro volta  le autorità competenti, cioè la Procura di Palermo.

Falcone e Borsellino all'inaugurazione dell'anno giudiziario a Roma


di Giovanni Fasanella 

Paolo Borsellino fu assassinato perché era contrario alla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, secondo l’ipotesi al centro della nuova inchiesta siciliana, o piuttosto perché intendeva proseguire l’indagine di Giovanni Falcone e dei Ros su mafia e appalti? E chi fu a “tradirlo”: l’allora comandante del Ros generale Antonio Subranni, secondo l’accusa un «punciuto», un affiliato a Cosa nostra, o piuttosto chi non lo avvertì che la mafia aveva deciso di assassinarlo? Le risposte a queste due domande è possibile trovarle a partire dalle stesse carte dei magistrati siciliani. Basta leggerle con attenzione, ricostruendo ciò che accadde tra il 19 giugno e il 19 luglio 1992, nell’ultimo mese di vita di Borsellino. Ecco.







19 giugno. Il generale Subranni e il suo più stretto collaboratore, colonnello Mario Mori, ricevono da una fonte confidenziale la notizia che Cosa nostra ha intenzione di assassinare Borsellino e altri personaggi: il ministro socialista della Difesa Salvo Andò, il parlamentare democristiano Calogero Mannino, due ufficiali dei carabinieri, Umberto Sinico e Carmelo Canale. Subranni e Mori informano immediatamente Borsellino attraverso due ufficiali del Ros: il maggiore Felice Ierfone e lo stesso capitano Sinico. Lo stesso giorno, il generale Subranni invia un rapporto al comando generale dell’Arma, invitandolo ad avvertire subito anche i ministeri della Difesa, dell’Interno e della Giustizia, perché a loro volta allertino le autorità competenti, cioè la procura di Palermo.
25 giugno. Borsellino incontra  Mori e il capitano Giuseppe De Donno, invitandoli a proseguire l’inchiesta su mafia e appalti che Falcone aveva avviato prima di lasciare Palermo per trasferirsi a Roma (morirà nella strage di Capaci il 23 maggio 1992)
26-27 giugno. Borsellino è a Giovinazzo, in provincia di Bari. Partecipa a un convegno di Magistratura indipendente, la corrente di cui fa parte. In quell’occasione, incontra Diego Cavaliero, un suo amico, che lo vede preoccupato e gli domanda se qualcosa non va. Ma il giudice ma non gli dice nulla.
28 giugno. All’aeroporto di Fiumicino, Borsellino incontra Liliana Ferraro, direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, la quale gli riferisce che De Donno è passato a salutarla e le ha parlato del tentativo del Ros di contattare Vito Ciancimino per convicenrlo a collaborare ed avere una fonte di altissimo livello dentro la famiglia dei “corleonesi”. Il giudice «ne prende atto senza commento», dice la Ferraro. In quella stessa occasione, all’aeroporto di Roma, Borsellino incontra anche il ministro della Difesa Salvo Andò, il quale gli dice delle minacce di Cosa nostra. E’ una delle prove che il Comando generale dell’Arma ha avvertito il governo.
1 luglio. Borsellino interroga Gaspare Mutolo, il quale ha chiesto espressamente di parlare con lui. Il boss gli rivela che Bruno Contrada e il pm Domenico Signorino, che era amico di Borsellino, «sono collusi». Signorino si suiciderà qualche mese più tardi sparandosi un colpo di pistola alla tempia.
1 luglio. Nel pomeriggio, Borsellino è al Viminale per l’insediamento del nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Ci sono anche Contrada, il capo della Polizia Vincenzo Parisi ed altri magistrati. «Ma non è contento?», gli chiederà dopo Mutolo. «No, perché ho visto Contrada», risponderà il magistrato.
15-16 luglio. Borsellino ha incontrato nuovamente Parisi e un suo  collaboratore, il Prefetto Luigi Rossi. E in quei due giorni ha due appuntamenti importanti. A colazione vede il superpoliziotto Gianni De Gennaro. E cena, vede l’onorevole socialdemocratico Carlo Vizzini e due colleghi magistrati siciliani, Gioacchino Natoli e Guido Lo Forte.
17 luglio. Borsellino telefona al procuratore della Repubblica di Palermo Piero Giammanco ed ha con lui un confronto durissimo in cui lo accusa di non averlo avvertito delle minacce di Cosa nostra, secondo la testimonianza della moglie di Borsellino ai procuratori Antonio Ingoia e Nino Di Matteo.
19 luglio. Borsellino viene assassinato in via D’Amelio, a Palermo.
In tutti quegli incontri, alcuni anche di carattere istituzionali, nessuno, tranne Andò, gli aveva detto una sola parola sul pericolo che Borsellino correva. Nè lui aveva mai parlato di trattativa Stato-mafia, ma sempre e solo di inchiesta su mafia e appalti.
Una domanda è d’obbligo: se avesse saputo della trattativa, un magistrato come Borsellino se ne sarebbe rimasto con le mani in mano o avrebbe subito aperto un procedimento penale? Di sicuro, non fece nulla. E la ragione più plausibile è che non ne sapesse nulla.
Le notizie degli obiettivi che la mafia intendeva colpire provenivano da una fonte confidenziale del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, un boss mafioso detenuto nel carcere di Fossombrone
Il 23 febbraio 1995, durante una puntata della trasmissione "Tempo reale" di Michele Santoro, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, allora uno dei dirigenti della Rete, e il sindaco di Terrasini Manlio Mele, anche lui della Rete, accusarono pubblicamente il sottufficiale di collusione con Cosa Nostra. Due settimane dopo, il 4 marzo, Lombardo si uccise: per difendere il proprio onore.


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