Alla fine dell'articolo c'è la copia del Rapporto dei Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) dei carabinieri, datato 19 giugno 1992, inviato al Comando Generale dell’Arma, con invito ad avvertire subito anche i Ministeri della Difesa, dell’Interno e della Giustizia, per allertare a loro volta le autorità competenti, cioè la Procura di Palermo.
Falcone e Borsellino all'inaugurazione dell'anno giudiziario a Roma |
di Giovanni Fasanella
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- 2 luglio 2012 -
Paolo Borsellino fu
assassinato perché era contrario alla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”,
secondo l’ipotesi al centro della nuova inchiesta siciliana, o piuttosto perché
intendeva proseguire l’indagine di Giovanni Falcone e dei Ros su mafia e
appalti? E chi fu a “tradirlo”: l’allora comandante del Ros generale Antonio
Subranni, secondo l’accusa un «punciuto», un affiliato a Cosa nostra, o
piuttosto chi non lo avvertì che la mafia aveva deciso di assassinarlo? Le
risposte a queste due domande è possibile trovarle a partire dalle stesse carte
dei magistrati siciliani. Basta leggerle con attenzione, ricostruendo ciò che
accadde tra il 19 giugno e il 19 luglio 1992, nell’ultimo mese di vita di
Borsellino. Ecco.
19 giugno. Il generale
Subranni e il suo più stretto collaboratore, colonnello Mario Mori, ricevono da
una fonte confidenziale la notizia che Cosa nostra ha intenzione di
assassinare Borsellino e altri personaggi: il ministro socialista della
Difesa Salvo Andò, il parlamentare democristiano Calogero Mannino, due
ufficiali dei carabinieri, Umberto Sinico e Carmelo Canale. Subranni e Mori
informano immediatamente Borsellino attraverso due ufficiali del Ros: il
maggiore Felice Ierfone e lo stesso capitano Sinico. Lo stesso giorno, il
generale Subranni invia un rapporto al comando generale dell’Arma, invitandolo
ad avvertire subito anche i ministeri della Difesa, dell’Interno e della
Giustizia, perché a loro volta allertino le autorità competenti, cioè la
procura di Palermo.
25 giugno. Borsellino
incontra Mori e il capitano Giuseppe De Donno, invitandoli a proseguire
l’inchiesta su mafia e appalti che Falcone aveva avviato prima di lasciare
Palermo per trasferirsi a Roma (morirà nella strage di Capaci il 23 maggio
1992)
26-27 giugno. Borsellino è a
Giovinazzo, in provincia di Bari. Partecipa a un convegno di Magistratura
indipendente, la corrente di cui fa parte. In quell’occasione, incontra Diego
Cavaliero, un suo amico, che lo vede preoccupato e gli domanda se qualcosa non
va. Ma il giudice ma non gli dice nulla.
28 giugno. All’aeroporto di
Fiumicino, Borsellino incontra Liliana Ferraro, direttore degli Affari penali
del ministero della Giustizia, la quale gli riferisce che De Donno è passato a
salutarla e le ha parlato del tentativo del Ros di contattare Vito Ciancimino
per convicenrlo a collaborare ed avere una fonte di altissimo livello dentro la
famiglia dei “corleonesi”. Il giudice «ne prende atto senza commento», dice la
Ferraro. In quella stessa occasione, all’aeroporto di Roma, Borsellino incontra
anche il ministro della Difesa Salvo Andò, il quale gli dice delle minacce di
Cosa nostra. E’ una delle prove che il Comando generale dell’Arma ha avvertito
il governo.
1 luglio. Borsellino
interroga Gaspare Mutolo, il quale ha chiesto espressamente di parlare con lui.
Il boss gli rivela che Bruno Contrada e il pm Domenico Signorino, che era amico
di Borsellino, «sono collusi». Signorino si suiciderà qualche mese più tardi
sparandosi un colpo di pistola alla tempia.
1 luglio. Nel pomeriggio,
Borsellino è al Viminale per l’insediamento del nuovo ministro dell’Interno
Nicola Mancino. Ci sono anche Contrada, il capo della Polizia Vincenzo Parisi
ed altri magistrati. «Ma non è contento?», gli chiederà dopo Mutolo. «No,
perché ho visto Contrada», risponderà il magistrato.
15-16 luglio. Borsellino ha
incontrato nuovamente Parisi e un suo collaboratore, il Prefetto Luigi
Rossi. E in quei due giorni ha due appuntamenti importanti. A colazione vede il
superpoliziotto Gianni De Gennaro. E cena, vede l’onorevole socialdemocratico
Carlo Vizzini e due colleghi magistrati siciliani, Gioacchino Natoli e Guido Lo
Forte.
17 luglio. Borsellino
telefona al procuratore della Repubblica di Palermo Piero Giammanco ed ha con
lui un confronto durissimo in cui lo accusa di non averlo avvertito delle
minacce di Cosa nostra, secondo la testimonianza della moglie di Borsellino ai
procuratori Antonio Ingoia e Nino Di Matteo.
19 luglio. Borsellino
viene assassinato in via D’Amelio, a Palermo.
In tutti quegli
incontri, alcuni anche di carattere istituzionali, nessuno, tranne Andò, gli
aveva detto una sola parola sul pericolo che Borsellino correva. Nè lui aveva
mai parlato di trattativa Stato-mafia, ma sempre e solo di inchiesta su mafia e
appalti.
Una domanda è
d’obbligo: se avesse saputo della trattativa, un magistrato come Borsellino se
ne sarebbe rimasto con le mani in mano o avrebbe subito aperto un procedimento
penale? Di sicuro, non fece nulla. E la ragione più plausibile è che non ne
sapesse nulla.
Le notizie degli
obiettivi che la mafia intendeva colpire provenivano da una fonte confidenziale
del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, un boss mafioso detenuto nel
carcere di Fossombrone.
Il 23 febbraio 1995,
durante una puntata della trasmissione "Tempo reale" di Michele
Santoro, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, allora uno dei dirigenti della
Rete, e il sindaco di Terrasini Manlio Mele, anche lui della Rete, accusarono
pubblicamente il sottufficiale di collusione con Cosa Nostra. Due settimane
dopo, il 4 marzo, Lombardo si uccise: per difendere il proprio onore.
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