martedì 24 aprile 2012

NEL SANNIO TRANQUILLO DILAGA LA CORRUZIONE E LE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI CONTROLLANO IL TERRITORIO

22 aprile, 2012
 Da "Il Sannio quotidiano"
 

Intervista al Sostituto Procuratore della Repubblica, Antonio Clemente
di Teresa Ferragamo



Non ci sono intoccabili. Ci sono politici che si considerano ancora così, ma la legge è uguale per tutti”
“Quando si toccano certi poteri forti c’è chi reagisce in modo sproporzionato denunciando il magistrato che li indaga”
“A Benevento e provincia i reati contro la pubblica amministrazione sono più diffusi che a Napoli. Qui c’è una sorte di pax mafiosa, ci sono organizzazioni criminali che controllano il territorio senza avere rivali”
“Chi approfitta di posizioni pubbliche andrebbe emarginato senza esitazione”

Venti passi separano l’ingresso della Procura della Repubblica dall’ufficio del sostituto procuratore Antonio Clemente. Ma prima di entrare, colpisce il cartello alla buona attaccato sul muro: “Vietato sedersi sulla scrivania”. Ma come, pensi, nel Palazzo della Giustizia c’è qualcuno a cui salta in mente di appollaiarsi su un tavolo? Chissà se quel divieto tanto esplicito quanto perentorio lo ha voluto lui.
Clemente, in un venerdì pomeriggio, è ancora barricato nel suo studio. Due scrivanie letteralmente sepolte da fascicoli, pile di carte, codici e testi di diritto. Sulle pareti, tutt’intorno, c’è però spazio per i ritratti in carboncino di Falcone e Borsellino, per alcuni riconoscimenti per una carriera iniziata vent’anni fa; mentre devi ruotare lo sguardo per cogliere tracce di vita privata e allora scopri che quasi nascoste dietro la porta ci sono le foto del sostituto procuratore mentre pratica sci di fondo o partecipa a una maratona. “Mi piace molto lo sport”, ammetterà dopo. Chissà chi glielo dà il tempo, visto che in Procura ci passa dalle 10 alle 12 ore al giorno.
Antonio Clemente da Montesarchio ha 25 anni (oggi di anni ne ha 45) quando entra in Magistratura. Ha frequentato il Liceo classico a Benevento, ma per l’Università preferisce trasferirsi a Milano e si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza della Cattolica.
Dottore Clemente, quando ha cominciato a immaginarsi magistrato?
“Già al liceo fare il magistrato era una mia aspirazione. L’ho perseguita con ostinazione e sono riuscito a realizzarla presto”.
Quella di entrare di in magistratura è una scelta di campo, col senno di poi la rifarebbe?
“La rifarei perché è stata una scelta ideale. Io vivo la magistratura come servizio. La nostra è un’attività che però va affrontata con umiltà, semplicità, cercando ogni giorno di fare fino in fondo il proprio dovere che è quello di applicare la legge. Anche se l’accertamento della responsabilità penale non può reggersi sui singoli. La lotta per la legalità deve poter contare non solo sul sistema giudiziario o delle forze dell’ordine, ma anche su quello politico e amministrativo, altrimenti è persa in partenza”.
Lei è stato per 13 anni pubblico ministero alla Procura di Napoli. E’ a Benevento dal 2005. Qual è la differenza tra il tessuto criminale sannita e quello napoletano?
“A Napoli c’è una criminalità da strada. I tanti fatti criminosi, i furti, le rapine, le estorsioni e gli omicidi, sono dovuti alla presenza di bande o organizzazioni camorristiche rivali, per cui si percepisce di più l’allarme sociale. Nel Sannio c’è invece una criminalità da strada meno cruenta anche per una sorta di pax mafiosa”.
Pax mafiosa, che cosa vuol dire?
“Che qui ci sono organizzazioni criminali che controllano il territorio senza avere rivali che possano mettere in discussione il loro potere. Mentre a Napoli e provincia insistono organizzazioni che lottano per l’affermazione del potere sul territorio. Una guerra civile di inaudita violenza. Quando sono arrivato a Benevento, pensavo che mi sarei trovato a vivere una realtà più tranquilla, meno votata al crimine e al malaffare Così non è stato. Ho dovuto constatare che, purtroppo, molti reati, soprattutto in materia economica o di pubblica amministrazione sono diffusi allo stesso modo, o forse anche di più. I reati di corruzione, di truffa in danno di enti pubblici, o i casi di turbativa di appalti pubblici e altri reati contro la pubblica amministrazione sono più frequenti nel Sannio. Come dice anche il procuratore capo Maddalena Benevento non è un’isola felice. Ci sono fenomeni di illegalità molto diffusi anche nei piccoli comuni, non solo nel capoluogo”.
Un’illegalità ‘sommersa’, dunque?
“Sono i fenomeni più nascosti, ma comunque preoccupanti e invasivi. E vanno fronteggiati con rigore. Senza cultura della legalità non c’è possibilità di rinascita, risanamento e sviluppo. Basti pensare che nei Paesi in cui più alto è il senso di legalità, e penso alla Germania o all’Inghilterra alla Francia, ci sono condizioni economiche e sociali migliori che in quei Paesi, come la Grecia per esempio, in cui più diffusi sono i fenomeni di criminalità. Bisogna essere coerenti con se stessi, e cominciare a essere uniti nel difendere, diffondere e insegnare il valore della legalità. E’ una battaglia culturale e politica, e la magistratura non può essere lasciata sola. Bisogna capire che chi pratica la corruzione, chi commette un reato contro la pubblica amministrazione danneggia l’intera collettività, pregiudica la possibilità di investire, di creare sviluppo e, quindi, occupazione”.
E’ più difficile contrastare i casi di malaffare o malcostume ‘più nascosti’ o la criminalità organizzata?
“Nei casi di criminalità organizzata è più facile ottenere un maggiore dispiegamento di forze e mezzi, si punta molto sull’attività di investigazione. Spesso invece accade che le indagini per reati di corruzione o concussione o truffa vengano trattati come figli di un dio minore. Ci si affida allo spirito di abnegazione e agli sforzi dei singoli. Ma le forze a disposizione sono ridotte all’osso”.
Ci sono stati anni in cui in Procura sfilavano orde di persone comuni o imprenditori che denunciavano spontaneamente. Oggi che tasso di denuncia spontanea c’è nel Sannio?
“Basso, purtroppo. Non ci sono molte denunce per casi di corruzione, concussione, o truffa, perché si temono gli ingranaggi giudiziari ma anche gli effetti sociali di una scelta. Continua a mancare quell’auspicabile spinta a denunciare fatti gravi che, per esempio, si ritrova nei Paesi del Nord Europa. Se non si verifica questa sorta di ribellione civile, la lotta contro il malaffare sarà destinata a fallire”.
La corruzione spinge l’Italia in basso nelle classifiche che misurano la competitività di un Paese. Come lo spiega?
“Il malcostume è un male difficile da estirpare. In Italia raggiunge però livelli patologici. Mentre la scommessa deve essere quella di riportarla a livelli fisiologici”.
Quali sono secondo lei le riforme urgenti della giustizia?
“Per quanto riguarda il processo penale, la riforma più urgente è quella sulla prescrizione. I reati gravi, come corruzione, truffa in danni dello Stato, turbative negli appalti, si prescrivono entro sette anni e mezzo dal fatto, non dalla scoperta del fatto. Il che significa: nessuna conseguenza per chi ha commesso il reato. Il problema è che il reato viene scoperto anche due o tre anni dopo il fatto e il tempo per la prescrizione si consuma già quasi tutto in primo grado, poi nell’imbuto dell’appello o in Cassazione il reato si prescrive. Mentre nei paesi più evoluti, con la richiesta di rinvio a giudizio i reati non si prescrivono più, ma si viene o condannati o assolti. Non si può più giocare a impedimenti, rinvii degli avvocati, per evitare che si arrivi a una sentenza di condanna. Ci sono poi i ritardi dovuti a rinvii dei processi causati dalle malattie degli imputati, dalle assenze dei testi o dal cambiamento dei giudici. Questa è denegata giustizia. Anche l’annunciata riforma in materia di corruzione non risolve il problema”.
Ma perché in Italia non si arriva a fare una vera riforma della Giustizia?
“Perché una giustizia che non funziona fa comodo a tanti. Ma così non si può andare avanti. Se la giustizia funzionasse meglio, ci sarebbe meno criminalità. Un processo breve e una pena certa fungono da deterrente. Chi delinque in Italia pensa di poterla fare franca, proprio perché il processo conosce vie di fuga e diventa perfino difficile arrivare a una sentenza di condanna o di assoluzione. Occorrerebbe agevolare il compito di accertamento della responsabilità dei magistrati, penso per esempio all’anagrafe patrimoniale dei pubblici dipendenti che consentirebbe di verificare chi si arricchisce senza giustificazione. Così come sarebbe auspicabile una maggiore collaborazione delle banche: non è accettabile che per un accertamento bancario occorrano mesi”.
Insomma, lei immagina un altro paese.
“Ha ragione, forse immagino un altro paese. Con processi che sfocino in sentenze. Con tempi celeri e pene certe. Ma anche con un sistema complessivo che emargini il corrotto. Gli ordini professionali o un ente pubblico dovrebbero prendere provvedimenti nei confronti di un iscritto o di un dipendente che è incriminato, non si può aspettare una sentenza di condanna di terzo grado per intervenire. Chi approfitta di posizioni pubbliche va subito isolato. Senza esitazioni o timidezze”.
Un ragionamento che vale anche per i politici?
“Dovrebbe. La Corte europea dei diritti dell’uomo, d’altro canto, per reati gravi come corruzione, la concussione o la truffa riconosce l’esecutività della pena già dopo una sentenza di condanna in primo grado. La responsabilità politica, poi, è altra cosa ed è affidata alle coscienze degli uomini”.
E cosa pensa della responsabilità dei magistrati: il ‘chi sbaglia paga’ dovrebbe valere per tutti o no ?
“Sono favorevole alla responsabilità dei magistrati. Ma non a quella diretta. Negli altri paesi la causa si fa allo Stato e se il magistrato ha sbagliato paga di tasca propria. Non si può lasciare che un magistrato finisca nelle fauci di imputati più o meno in mala fede. E poi sul punto c’è molta retorica. Si raffrontino le sanzioni disciplinari ai magistrati con quelle di altri ordini professionali o delle pubbliche amministrazione e si scoprirà che i magistrati vengono sanzionati, spesso e anche gravemente, dalla sezione disciplinare del Csm”.
Conflitto tra politica e magistratura. Come dovrebbe reagire un magistrato all’accusa di politicizzazione?
“E’ un’accusa infamante. Se l’accusa però fosse vera, il magistrato dovrebbe essere severamente sanzionato, ma se dovesse rivelarsi infondata dovrebbe essere sufficientemente tutelato. La magistratura non è in conflitto con la politica. Dovere del magistrato è applicare la legge e in Italia, peraltro, c’è l’obbligatorietà dell’azione penale. Quando, però, le inchieste o i processi coinvolgono politici, si parla di attacco alla politica”.
Lei ha guidato e guida inchieste importanti che coinvolgono personaggi pubblici di Benevento e provincia. Quanto è difficile portarle avanti?
“Alcuni esponenti politici si ritengono intoccabili. Per la legge, però, gli intoccabili non esistono. Davanti a una notizia di reato, noi siamo chiamati a fare indagini verso chicchessia, accada quel che accada”.
Cosa pensa dei magistrati che decidono di appendere la toga al chiodo e si danno alla politica?
“Ogni cittadino ha diritto all’elettorato attivo e passivo. E un magistrato che è un tecnico, un conoscitore delle leggi, può dare un utile contributo anche in Parlamento. Certo vanno fissati dei paletti”.
A 20 anni da Mani pulite, cosa è cambiato. A cosa è servita quell’inchiesta?
“E’ servita a far capire che il livello di corruzione in Italia è elevatissimo. Ma è stata un’occasione persa.
In che senso?
“Nel senso che abbiamo smarrito l’occasione di sconfiggere la corruzione, che è un cancro per la politica e per l’economia. Un’occasione mancata per il paese di voltare pagina”.
Quanto tempo resterà ancora a Benevento?
“Il ripristino della legalità non può essere affidato ai singoli. Anche il mio posto è fungibile. Ogni dieci anni un magistrato dovrebbe cambiare non solo funzioni, ma anche sedi. Ma quello che conta è la lontananza da determinate lobby o centri di potere. Livatino diceva: un magistrato non solo deve essere indipendente, ma deve apparire indipendente”.
Si sente mai solo?
“Ci sono scelte che il magistrato deve giocoforza assumere in solitudine. Anche se mi conforta molto il dialogo e il confronto con il Procuratore capo, Maddalena”.
Ci sono inchieste che alimentano più di altre il senso di solitudine di un magistrato?
“Le indagini sulla pubblica amministrazione e su politici sono più complesse di altre, proprio perché qualcuno si sente intoccabile e reagisce in modo spropositato, presentando denunce o esposti al Csm o alla Procura generale della Cassazione. Ma quando si toccano certi interessi, si scatenano reazioni anche forti. E’ accaduto per De Magistris o per i magistrati di Salerno che indagavano su determinati poteri o con Tangentopoli”.
Alle sue spalle, ha le foto di due giudici-simbolo della lotta alla criminalità organizzata, Falcone e Borsellino. Lottarono fino alla morte contro la mafia e dovettero pure difendersi dai veleni interni alle Procure. E’ sempre così per i magistrati più esposti?
“ Falcone e Borsellino sono stati i protagonisti di una ‘nuova Resistenza’, sono riferimenti forti.
Chi fa il proprio dovere fino in fondo corre il rischio di essere accusato ingiustamente. E’ un prezzo che tutti i magistrati che toccano interessi forti possono essere costretti a pagare; l’importante è continuare a fare il proprio dovere senza scoraggiarsi. Ma il singolo non può salvare l’Italia. Tutti devono concorrere all’emersione di una nuova etica dell’interesse pubblico, non si può pensare a coltivare il proprio orticello, altrimenti l’idea stesso di Stato e comunità smarrisce il suo valore” .
Borsellino disse “Non sono né un eroe né un kamikaze, ma una persona come tante altre”. Anche lei è un magistrato in trincea, ha subito intimidazioni, pedinamenti, minacce. Non ha mai paura?
“Un magistrato impegnato è consapevole dei rischi che corre ogni giorno. Ormai sono diventato fatalista. E poi bisogna servire il proprio paese fino all’ultimo respiro”
Momenti di scoramento?
“Ci sono. Come disse Borsellino, appunto: siamo persone come tante altre. Ma lo Stato con i suoi uomini non può arretrare di un centimetro nella lotta all’illegalità”.
SCHEDA
Antonio Clemente è in servizio alla Procura della Repubblica di Benevento dal 2005, Dopo il trasferimento dalla Procura di Napoli, dove aveva lavorato ininterrottamente per tredici anni, occupandosi di criminalità economica ed organizzata e di reati contro la pubblica amministrazione.  Ha guidato e guida inchieste importanti e delicate: dai rifiuti alle truffe ai danni del Sistema Sanitario, dell’Enel e delle compagnie assicurative, dall’urbanistica all’usura e all’esercizio dell’attività bancaria. Si è occupato e si occupa di reati contro la pubblica amministrazione e i suoi rapporti con il mondo dell’imprenditoria, della massoneria e di alcuni omicidi e tentativi di omicidio. E’ Clemente che qualche settimana fa ascoltò il sindaco di Benevento , Fausto Pepe nell’ambito delle indagini su alcuni appalti a Palazzo Mosti. E’ stato vittima in più occasioni di atti di intimidazione e minacce. L’otto maggio 2010 gli furono spediti per busta due proiettili. Non ha mai ottenuto la scorta e anche questo ha alimentato non poche polemiche.