di Aldo Grasso
Corriere della Sera 29 aprile 2012
Prima della famosa battuta sui socialisti ladri patentati («Fantastico 7», 1986), prima di essere allontanato dalla Rai, Beppe Grillo era solo una scoperta di Pippo Baudo, una delle tante. Sì, è vero, si era distinto con due programmi poco convenzionali, «Te la do io l' America» (1981) e «Te lo do io il Brasile» (1984), diario di viaggio di un provinciale nei luoghi comuni di quei Paesi: comicità bonaria, racconto moderatamente dissacrante, niente di più. Fuori dalla tv, Grillo ha cominciato a intraprendere un lungo viaggio nei teatri, nelle piazze, nei siti, una sorta di «Te la do io l' Italia», mantenendo intatto il meccanismo di fondo (la perlustrazione dei luoghi comuni), ma acuminando lo sguardo. Come ebbe a dire il grande Dino Risi, «Grillo è più attore adesso che non quando girava film».
Nel frattempo, il commediante è diventato lo spauracchio della politica italiana, il capofila di quell' antipolitica che sta facendo perdere le staffe a molti leader (che lui battezza come «dementi, dilettanti allo sbaraglio»). In un mondo in cui tutti necessariamente recitano, secondo le regole della politica pop, il suo successo deriva dal fatto che lui è il più bravo a recitare. Con un repertorio ormai collaudato («La Gasparri permette a un iPod Nano di possedere tre televisioni e venti giornali», «Le banche ti chiedono soldi e fiducia, però legano la biro a una catenella», «D' Alema è uno che si è finto di sinistra essendo di destra», «L' Udc è l' Unione dei carcerati», «Rigor Montis»...) irride la concorrenza con intolleranza. Lisciando il pelo al populismo, incanaglisce contro le tasse («se tutti pagassero le tasse si ruberebbe il doppio», «i controlli della Finanza sono un modo per istillare l' odio sociale») e finisce per offrire un insperato alibi agli evasori. Sono i rischi della demagogia, il paradosso del Buffone che volle farsi Re. «Te la do io l' Italia» è uno spettacolo triste dove un buffone dice di farsi beffe di altri buffoni, dove il malumore e la rabbia si travestono da ultima risata, dove il «vaffa» esprime l' inconfessabile esultanza del proselitista, felice di incatenare gli altri nel nome della libertà.