Aldo Maturo
“Vi sono dei momenti, nella vita,
in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile,
una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può
sottrarre". Questa una delle frasi più belle del libro di Oriana Fallaci,
“La rabbia e l’orgoglio”.
Ho scelto di prenderla in
prestito dalla Fallaci - e mi sono
deciso a fare questa puntualizzazione - perché sto leggendo un libro sulla vita
di un ergastolano che ha trascorso diversi anni nel carcere di Fossombrone.
L’autore
racconta la storia tormentata di questo detenuto e alterna flash-back di vita
vissuta prima e durante la carcerazione. Vi si ritrovano puntuali descrizioni
del paese, del carceron, delle dinamiche interne, del coinvolgimento emotivo
delle famiglie e naturalmente non poteva
mancare un passaggio sugli agenti. La perfetta conoscenza che l’autore ha
dell’istituto avrebbe forse suggerito di evitare il ricorso a qualche aneddoto
da bar, incompatibile con il livello professionale del personale che lavora in
quell’istituto.
“ …omissis… e’ vero, non si dice più guardie carcerarie,
scusate, oggi si chiamano agenti di polizia penitenziaria. Ma a Fossombrone, da
sempre, si chiamano “tiracatorc”. La gente del posto li chiama così: i “tiracatorc”
sono almeno duecento, sono una fetta importante della popolazione, sono tutti
del posto, non vengono dal Sud come in altre carceri.
Ne ho sentite di storie su di loro…Quando si incontrano, in
carcere, non si chiamano per nome, si chiamano “collega”. Arrivano a qualche
cancello di cui non hanno la chiave e chiamano “collega” ed il collega apre la
porta, prende in consegna il detenuto e lo porta al cancello successivo, di cui
non ha la chiave e chiama “collega”. Tante volte ho sentito raccontare questa
storia dai parenti dei detenuti che aspettano fuori dal carcere. Ma perché non
si chiamano per nome? Come fanno, in duecento che sono, a capire che “collega”
stanno chiamando?
Un giorno ho saputo perché. E’ una tradizione che risale
all’inizio del ‘900. C’era una finestra sul lato del carcere che guarda verso
il passo del Furlo, da cui, se si verificava un pestaggio, i detenuti gettavano
un bigliettino con il nome de “tiracatorc” che se ne erano resi responsabili.
C’era un gruppo di anarchici che ogni sera passava sotto quella finestra per
vedere se c’era il bigliettino. Se lo trovavano, il nome del “tiracatorc” era
segnato: la sera stessa o la sera dopo avrebbe ricevuto una dose di legnate
simile a quella da lui dispensata ai prigionieri. Per quello i tiracatorc di
Fossombrone hanno smesso di chiamarsi per nome. “Collega” è il modo di
chiamarsi che hanno scelto, per evitare che il loro nome finisse su un
bigliettino sotto la finestra. E continuano ancora a chiamarsi così, “collega”,
anche dopo che è passato il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, facendo
rialzare il muro di cinta e costruendone un altro con garitte e telecamere,
istituendo una specie di “zona franca” attorno al carcere. Si dice anche la
soppressione della linea ferroviaria da Fano a Urbino, che passa proprio
davanti al portone del carcere, sia stata chiesta da Dalla Chiesa alle ferrovie
che hanno preso al volo l’occasione per tagliare un ramo secco. Oggi non è
certo più possibile lanciare un biglietto dalla finestra, io ho passato anni là
fuori e non ho mai visto piovere nulla dalle mura…(omissis)…”
Ci sarebbe da sorridere se non si
sentisse il bisogno di far chiarezza su questa stupida storiella. E’ noto a chiunque
conosce il carcere, infatti, che motivi
di privacy e di sicurezza consigliano di tutelare il nome del personale che
lavora a continuo e diretto contatto con i detenuti.
Il rischio professionale è
altissimo e il dover interagire ogni giorno con i detenuti li può esporre, anche nella vita
privata, a rischi di ritorsione per motivi legati alle dinamiche interne delle
sezioni. Può bastare un rifiuto, vissuto dal detenuto come affronto, per essere
oggetto di vendette o di minacce esterne. Il rischio si estende anche alle famiglie ed è consuetudine consolidata,
perciò, evitare che tramite il cognome si possa risalire agli indirizzi di
casa.
Per i Direttori ed funzionari
psico-pedagogici tali cautele non sono possibili perché la loro firma è in
calce agli atti di ufficio, la loro identità è ben nota e la cosa rientra,
purtroppo, nel rischio professionale correlato al loro ruolo.
Che le cautele non siano
infondate lo testimoniano, oltre a mille episodi che forse non raggiungono
l’onore della cronaca, i tanti attentati che hanno funestato il Corpo, da
Lorenzo Cotugno a Francesco Di Cataldo,
da Raffaele Cinotti a Germana Stefanini, dal Direttore Giuseppe Salvia a
Gennaro De Angelis.
“Collega”, perciò, è il modo più
utilizzato per chiamarsi sul posto di servizio. Non azzera, ma di certo
diminuisce il rischio di intimidazioni per lo svolgimento di un lavoro che vede
gli agenti confrontarsi con persone spesso incattivite perché private della
libertà. Può trattarsi di cittadini ancora imputati ed in attesa di giudizio ma,
nel caso di Fossombrone, i detenuti sono prevalentemente condannati e non poche
volte collegati ad organizzazioni criminali in grado di poter risalire alla
vita privata di chi nel carcere opera e lavora.