Al carcere si chiede
l'assurdo: "Ti parcheggio certi uomini. Aggiustali, poi tieniteli".
Casa Circondariale di Pesaro |
di
don Marco Pozza - Cappellano nella Casa
di Reclusione di Padova
Sussidiario.net, 15 settembre 2019
Il carcere è il
parcheggio imbruttito e trascurato della città: erbacce, asfalto dismesso,
segnaletica insufficiente. Non esiste parcheggio, a rigor di logica, che faccia
funzione di officina: abbandonando una macchina rotta in un parcheggio, non la
si ritroverà aggiustata. Al carcere, invece, sovente si chiede l'assurdo:
"Ti parcheggio certi uomini. Aggiustali, poi tieniteli".
Anche qualora, nel
parcheggio, si trovasse un meccanico di buona volontà che ripari l'autovettura,
per qualcuno non c'è gioia più grande di sapere che certe storie andranno
scordate, sottratte, allontanate dalla città degli uomini. Non hanno più
diritto alla cittadinanza.
Eppure, a scuola, tutti
abbiamo avuto l'occasione di leggere l'Odissea e chi non l'ha letta non può
vantare giustificazioni alla sua ignoranza. In quella storia, ch'è la mamma di
tutte le storie, si racconta della guerra di Troia: dieci anni a far la guerra
in nome della bellezza di Elena. Finì nel nome di Ulisse, l'avventuriero,
l'emblema della furbizia: ben nascosto nel suo cavallo, espugnò Troia con tutto
il suo ambaradan.
Il vincitore però, di
ritorno a Itaca, incappò in mille disgrazie. I troiani sconfitti, invece,
misteriosamente trovarono gloria: secondo la leggenda Roma fu fondata per mano
di Enea; la Francia per mano di Francio, un figlio di Priamo; l'Inghilterra da
Bruto, il nipote di Enea. Incuriosisce l'illogico di questa vicenda: che tre
potenze mondiali siano andate a cercare i loro antenati tra la stirpe che più
di tutte personifica la sconfitta.
"Ricordatevi sempre
della guerra di Troia - fu l'invito del mio prof più geniale: la vittoria rende
arroganti, la sconfitta induce alla meditazione". Per me Troia è città
gemellata con tutti i fallimenti della storia, più che città simbolo
dell'astuzia che conduce alla vittoria.
Ieri, in piazza San
Pietro, Papa Francesco ha dato appuntamento a tutti coloro che operano
all'interno delle carceri: non alle persone detenute - "Il Papa ha sempre
in mente i carcerati!" dicono in tanti - ma a coloro che, nei parcheggi
statali, s'inventano riparatori di storie, rifacitori di senso, esperti di
umanità. Per dire loro: "Grazie per tutte le volte che vivete il vostro
servizio non solo come una vigilanza necessaria, ma anche come un sostegno a
chi è debole (...) Non dimenticatevi del bene che potete fare ogni
giorno".
E nel suo discorrere,
sotto-sotto, mostrava di custodire un segreto: che lavorare lì dentro sia
un'occasione gigante per ripassare la lezione di Troia. A breve sono i
vincitori a scrivere la storia, alla lunga la storia si arricchisce
maggiormente con l'esperienza dei vinti: "Non lasciatevi mai imprigionare
nella cella buia di un cuore senza speranza, non cedete alla disperazione"
ha aggiunto rivolgendosi alle persone detenute. Che sono gli sconfitti, i
"mostri", quelle storie abbandonate in quei parcheggi di cemento che
sono le patrie galere. Storie che diventano terre di nessuno.
Dopo una vittoria chi
vince riposa, festeggia. Dopo una sconfitta, chi perde sovente si rimette
subito in moto: più feroce, più vitale, più agguerrito. Il Papa lo sa che
questo è Vangelo e che gli errori, i peccati, sono storie che partoriscono
altre storie: "Avanti! - dice rivolto ai cappellani ai religiosi, ai
volontari - quando a contatto con le povertà che incontrate vedete le vostre
stesse povertà. È un bene, perché è essenziale riconoscersi prima di tutto
bisognosi di perdono".
Il Papa non ha paura: è
troppo convinto che, alla fine, Dio non permetterà che la storia vada a finire
in maniera diversa da come l'ha sognata Lui. Francesco è mal sopportato dai
vincitori, è acclamato dai vinti: i cristiani vincenti, con i loro
rappresentanti in doppio petto e berretto, gli vanno contro. I cristiani
peccatori lo cercano per chiedergli un passaggio verso il Cielo: "Mai
privare del diritto di ricominciare. Mentre si rimedia agli sbagli del passato
- chiude - non si può cancellare la speranza". Parlando degli sconfitti,
furbo e santo com'è, rilancia il sospetto che sia troppo facile professarsi
casti senza mai essere stati tentati.