Quando
le campagne elettorali si facevano in piazza, quando le auto del partito
giravano con gli altoparlanti (ricoperte di manifesti) per attirare la gente,
quando i comizi si facevano solo dai balconi, quando i candidati scendevano tra
la gente, quando la politica aveva un gusto di genuina paesanità, quando la TV
non c’era, quando ancora era vivo il contatto umano con chi prometteva un
futuro migliore. Quando queste cose succedevano al mio paese, Telese Terme, ma
ci si possono ritrovare le tradizioni elettorali di quegli anni in cui l'Italia
scopriva la democrazia.
Aldo Maturo
La campagna
elettorale accendeva gli animi, animava i bar, rappresentava l’appuntamento del
massimo risveglio per un paese che nei mesi primaverili o autunnali era solito
sonnecchiare. Le elezioni amministrative erano più seguite delle politiche
perché si assisteva alle discese in campo più imprevedibili. Accanto ai capi,
ci si poteva trovare l’amico, il vicino di casa, l’outsider, il compromesso, il
corrotto, il politicante, la banderuola, il porta voti, l’aspirante a un posto
di vice aiuto bidello, il grande elettore col pacchetto di voti in offerta, il
manovratore occulto, l’esperto nell’arte del “galleggiare” con due salvagenti.
A fermarsi in tempo, nel setaccio poteva restare anche qualche purista
disinteressato e qualche attivista convinto.
I primi segnali di inizio
delle ostilità erano i grossi striscioni elettorali che si tendevano tra gli
alberi o da un balcone all’altro della strada. Poi cominciavano i manifesti che
invadevano disordinatamente qualunque spazio verticale (i tabelloni elettorali
sono un’invenzione abbastanza recente). Alla fine partivano macchine
sgangherate che giravano il paese, sormontate dalle trombe della Geloso per
invitare a votare l’uno o l’altro candidato. All’interno un’attivista, un
amplificatore, un microfono, un giradischi e pacchi di volantini con faccioni
invitanti e mistificatamente datati. Le auto, con le fiancate e i vetri
tappezzate di manifesti azzurri (DC) rossi (PCI) o fiammati(MSI) giravano il
paese per pubblicizzare un candidato o per annunciarne un discorso. Gli
estemporanei slogan elettorali avevano un sapore casereccio in un mix di
dialetto e stacchi musicali. Non c’erano ancora i messaggi preregistrati e
tutto era demandato alle capacità dell’autista, che guidava con la mano
sinistra e con la destra parlava al microfono, teneva la sigaretta e alzava o
abbassava il tono dell’amplificatore sul sedile di fianco.
L’arrivo della macchina
si sentiva da lontano, preceduta dalle note di marcette storiche che
etichettavano inevitabilmente l’uno o l’altro schieramento.
La macchina aveva poi i
suoi posti fissi dove sostava qualche minuto per il suo “bando” completo e lì
l’attivista viveva il suo momento di gloria. Erano i punti nevralgici del paese
al servizio degli avventori dei bar di zona: il quadrivio, la stazione, la
chiesa, le piccole piazze.
Il
comizio era il massimo del coinvolgimento emotivo. Praticamente il paese si
riversava poco a poco in centro per sentire l’oratore di turno, spesso
preceduto dalla voce emozionata, sincopata e ruspante del presentatore che
introduceva il comizio con brevi note, biografiche per il neofita allo
sbaraglio o infarcite di panegirico elettorale per il politico collaudato o
uscente. Ma prima del comizio c’era l’attesa, fatta di almeno un quarto d’ora,
riempita con le colonne sonore che avevano segnato la storia del partito. Biancofiore
per la Democrazia Cristiana, l’Internazionale per PCI e dintorni (PSI, PSDI e
PSIUP), le marcette militari per il MSI. “Papaveri e Papere” aveva un successo
personale e ce la si poteva aspettare da qualunque balcone, perché era
considerata musica di intrattenimento apartitica.
In quegli anni – per la
sua posizione logistica – il balcone di casa mia, al quadrivio, diventava
durante la campagna elettorale il podio prescelto da candidati di tutti gli
schieramenti. Il preferito era il primo a sinistra guardando casa, quello più
prossimo al quadrivio. All’interno i mobili venivano un po’ accantonati per far
posto a fili, prolunghe, amplificatori, gira dischi a 33 giri, borse, vassoi
col caffè. Mio padre non parteggiava per nessuno, non riusciva a dire di no e
così il balcone di “Don Ettore” era prenotato per l’intera durata dei comizi.
Da ragazzino curioso mi piaceva vedere la casa piena di gente e da dietro le
tende sbirciavo la piazza che si riempiva un po’ alla volta. Non me ne
importava niente, avrei potuto farlo da qualunque altro balcone e invece no,
dovevo spiare da quello spalancato dove c’era l’asta col microfono, forse
perché così mi aiutavo ad immedesimarmi meglio nell’animo dell’oratore che
quando si sarebbe affacciato a parlare avrebbe potuto inorgoglirsi o deludersi
per una piazza piena o vuota. Attaccato all’inferriata si metteva puntualmente
lo stemma del partito e così quel balcone nello spazio di una serata cambiava
colore politico più volte.
La gente un po’ alla
volta si radunava, alla spicciolata, con aria assente e disinteressata. C’era
chi incontrava l’amico che tanto amico non era, ne approfittava per fermarsi a
chiacchierare finchè la musica cedeva il passo al presentatore. Ed allora si
fermava a sentire col naso in su, come a dire, visto che ci sono, mi fermo
cinque minuti, invidiando intimamente i più furbi che avevano occupato per
tempo le sedie del bar proprio sotto al balcone e così, potendo apparire
avventori, non dovevano rendere conto a nessuno della loro presenza al comizio.
Sì, perché anche il solo andare a un comizio poteva urtare la suscettibilità di
qualcuno.
Il massimo del
divertimento era quando dallo stesso balcone doveva iniziare un altro comizio e
il nuovo oratore usciva su quello a fianco per farsi vedere e far capire
all’altro che il tempo era scaduto. Quando qualche altra famiglia si convinse a
mettere a disposizione anche un suo balcone, scaduto l’orario del primo comizio
si accendevano le luci dell’altro “podio” e partiva cronometricamente la musica
introduttiva del comizio successivo, prima sotto tono e poi a volume sempre più
elevato per tagliare il tempo a chi non voleva rispettare la tabella di marcia.
Non erano rari i battibecchi e le imprecazioni o il continuare a parlare per
dispetto, col sottofondo delle musiche dell’altro. Non poche volte, e questo
era spiacevole, la piazza si scaldava e partiva qualche scazzottata.
La lotta finale era
quella per prenotare dai carabinieri l’ultimo comizio, quello che terminava
alla mezzanotte del venerdì, prima della pausa elettorale. Era il comizio del
D-day, determinante, decisivo, appagante, l’ultimo tarlo lasciato all’ultimo
minuto nella mente dell’elettore dai massimi candidati di turno.
Un po’ alla volta i
comizi lasciarono i balconi e si trasferirono sui palchetti, di quartiere in
quartiere, fino a spegnersi. E’ stata la fine di un’epoca fatta di genuina
partecipazione alla vita attiva del paese. Quei momenti di magia vissuti sotto
balconi opposti ci hanno dato il piacere di sentirci comunità interessata alla vita
del paese, insegnandoci a poco a poco a scoprire la democrazia.
(Da "Fotogrammi di Memoria" - Aldo Maturo - Ediz.Nous, 2013)