domenica 24 maggio 2015

QUANDO I COMIZI SI FACEVANO DAL BALCONE





Quando le campagne elettorali si facevano in piazza, quando le auto del partito giravano con gli altoparlanti (ricoperte di manifesti) per attirare la gente, quando i comizi si facevano solo dai balconi, quando i candidati scendevano tra la gente, quando la politica aveva un gusto di genuina paesanità, quando la TV non c’era, quando ancora era vivo il contatto umano con chi prometteva un futuro migliore. Quando queste cose succedevano al mio paese, Telese Terme, ma ci si possono ritrovare le tradizioni elettorali di quegli anni in cui l'Italia scopriva la democrazia.





 
Aldo Maturo


La campagna elettorale accendeva gli animi, animava i bar, rappresentava l’appuntamento del massimo risveglio per un paese che nei mesi primaverili o autunnali era solito sonnecchiare. Le elezioni amministrative erano più seguite delle politiche perché si assisteva alle discese in campo più imprevedibili. Accanto ai capi, ci si poteva trovare l’amico, il vicino di casa, l’outsider, il compromesso, il corrotto, il politicante, la banderuola, il porta voti, l’aspirante a un posto di vice aiuto bidello, il grande elettore col pacchetto di voti in offerta, il manovratore occulto, l’esperto nell’arte del “galleggiare” con due salvagenti. A fermarsi in tempo, nel setaccio poteva restare anche qualche purista disinteressato e qualche attivista convinto.



I primi segnali di inizio delle ostilità erano i grossi striscioni elettorali che si tendevano tra gli alberi o da un balcone all’altro della strada. Poi cominciavano i manifesti che invadevano disordinatamente qualunque spazio verticale (i tabelloni elettorali sono un’invenzione abbastanza recente). Alla fine partivano macchine sgangherate che giravano il paese, sormontate dalle trombe della Geloso per invitare a votare l’uno o l’altro candidato. All’interno un’attivista, un amplificatore, un microfono, un giradischi e pacchi di volantini con faccioni invitanti e mistificatamente datati. Le auto, con le fiancate e i vetri tappezzate di manifesti azzurri (DC) rossi (PCI) o fiammati(MSI) giravano il paese per pubblicizzare un candidato o per annunciarne un discorso. Gli estemporanei slogan elettorali avevano un sapore casereccio in un mix di dialetto e stacchi musicali. Non c’erano ancora i messaggi preregistrati e tutto era demandato alle capacità dell’autista, che guidava con la mano sinistra e con la destra parlava al microfono, teneva la sigaretta e alzava o abbassava il tono dell’amplificatore sul sedile di fianco.

L’arrivo della macchina si sentiva da lontano, preceduta dalle note di marcette storiche che etichettavano inevitabilmente l’uno o l’altro schieramento.

La macchina aveva poi i suoi posti fissi dove sostava qualche minuto per il suo “bando” completo e lì l’attivista viveva il suo momento di gloria. Erano i punti nevralgici del paese al servizio degli avventori dei bar di zona: il quadrivio, la stazione, la chiesa, le piccole piazze.



Il comizio era il massimo del coinvolgimento emotivo. Praticamente il paese si riversava poco a poco in centro per sentire l’oratore di turno, spesso preceduto dalla voce emozionata, sincopata e ruspante del presentatore che introduceva il comizio con brevi note, biografiche per il neofita allo sbaraglio o infarcite di panegirico elettorale per il politico collaudato o uscente. Ma prima del comizio c’era l’attesa, fatta di almeno un quarto d’ora, riempita con le colonne sonore che avevano segnato la storia del partito. Biancofiore per la Democrazia Cristiana, l’Internazionale per PCI e dintorni (PSI, PSDI e PSIUP), le marcette militari per il MSI. “Papaveri e Papere” aveva un successo personale e ce la si poteva aspettare da qualunque balcone, perché era considerata musica di intrattenimento apartitica.
In quegli anni – per la sua posizione logistica – il balcone di casa mia, al quadrivio, diventava durante la campagna elettorale il podio prescelto da candidati di tutti gli schieramenti. Il preferito era il primo a sinistra guardando casa, quello più prossimo al quadrivio. All’interno i mobili venivano un po’ accantonati per far posto a fili, prolunghe, amplificatori, gira dischi a 33 giri, borse, vassoi col caffè. Mio padre non parteggiava per nessuno, non riusciva a dire di no e così il balcone di “Don Ettore” era prenotato per l’intera durata dei comizi. Da ragazzino curioso mi piaceva vedere la casa piena di gente e da dietro le tende sbirciavo la piazza che si riempiva un po’ alla volta. Non me ne importava niente, avrei potuto farlo da qualunque altro balcone e invece no, dovevo spiare da quello spalancato  dove c’era l’asta col microfono, forse perché così mi aiutavo ad immedesimarmi meglio nell’animo dell’oratore che quando si sarebbe affacciato a parlare avrebbe potuto inorgoglirsi o deludersi per una piazza piena o vuota. Attaccato all’inferriata si metteva puntualmente lo stemma del partito e così quel balcone nello spazio di una serata cambiava colore politico più volte.


 
La gente un po’ alla volta si radunava, alla spicciolata, con aria assente e disinteressata. C’era chi incontrava l’amico che tanto amico non era, ne approfittava per fermarsi a chiacchierare finchè la musica cedeva il passo al presentatore. Ed allora si fermava a sentire col naso in su, come a dire, visto che ci sono, mi fermo cinque minuti, invidiando intimamente i più furbi che avevano occupato per tempo le sedie del bar proprio sotto al balcone e così, potendo apparire avventori, non dovevano rendere conto a nessuno della loro presenza al comizio. Sì, perché anche il solo andare a un comizio poteva urtare la suscettibilità di qualcuno.

Il massimo del divertimento era quando dallo stesso balcone doveva iniziare un altro comizio e il nuovo oratore usciva su quello a fianco per farsi vedere e far capire all’altro che il tempo era scaduto. Quando qualche altra famiglia si convinse a mettere a disposizione anche un suo balcone, scaduto l’orario del primo comizio si accendevano le luci dell’altro “podio” e partiva cronometricamente la musica introduttiva del comizio successivo, prima sotto tono e poi a volume sempre più elevato per tagliare il tempo a chi non voleva rispettare la tabella di marcia. Non erano rari i battibecchi e le imprecazioni o il continuare a parlare per dispetto, col sottofondo delle musiche dell’altro. Non poche volte, e questo era spiacevole, la piazza si scaldava e partiva qualche scazzottata.

La lotta finale era quella per prenotare dai carabinieri l’ultimo comizio, quello che terminava alla mezzanotte del venerdì, prima della pausa elettorale. Era il comizio del D-day, determinante, decisivo, appagante, l’ultimo tarlo lasciato all’ultimo minuto nella mente dell’elettore dai massimi candidati di turno.

Un po’ alla volta i comizi lasciarono i balconi e si trasferirono sui palchetti, di quartiere in quartiere, fino a spegnersi. E’ stata la fine di un’epoca fatta di genuina partecipazione alla vita attiva del paese. Quei momenti di magia vissuti sotto balconi opposti ci hanno dato il piacere di sentirci comunità interessata alla vita del paese, insegnandoci a poco a poco a scoprire la democrazia. 

 (Da "Fotogrammi di Memoria" - Aldo Maturo - Ediz.Nous, 2013)