"Le
frontiere sono un’esigenza psichica ineliminabile, regolano la paura dello
scambio, rassicurano e, allo stesso tempo, pongono le premesse per essere
violate. Mi gusto il sapore provocatorio di questo pensiero da un piccolo paese
del sud: in epoca di globalizzazione, se vogliamo veramente favorire gli
scambi, bisogna consolidare l’importanza delle frontiere."
Filomena Rita Di Mezza |
Filomena Rita di Mezza - psicoterapeuta
L’anima di
un paese traccia geografie singolari, trasforma una mappa in territorio, ne
svela ricchezze delicate…
Da diversi
anni, nell’ andare e tornare dallo studio, attraverso una singolare
frontiera, vigilata con zelo da un uomo di circa trent’anni, dall’aspetto
e dalla sostanza di un bambinone.
La sua postazione è dietro la grata del cortile, in piedi,
oppure seduto sulla panchina antistante l’abitazione. Col tempo, il rituale di
passaggio si é caratterizzato in questo modo: d’estate, spostandomi in
bicicletta, ci scambiamo sei rapide battute, “ dove vai?” “ allo studio” e
“dov’ è”? “ più avanti” “ ciao” “ ciao”.
D’inverno, invece, passando la frontiera in auto, io mi
limito ad alzare la mano in segno di saluto e C. fa altrettanto, entrambi
complici di quel singolare legame che scandisce, delicatamente, un pezzo della
quotidianità.
Le
frontiere sono un’esigenza psichica ineliminabile, regolano la paura dello
scambio, rassicurano e, allo stesso tempo, pongono le premesse per essere
violate. Mi gusto il sapore provocatorio di questo pensiero da un piccolo paese
del sud: in epoca di globalizzazione, se vogliamo veramente favorire gli
scambi, bisogna consolidare l’importanza delle frontiere!
Qualche
volta, accanto a C., ho visto seduta l’anziana madre, N., una esistenza
originalmente composta e scomposta tra energica vitalità, fatica e
imprecazioni, che mi ricorda certi ritratti cubisti di Picasso: realistici,
crudi, profondamente solidali con la complessità dell’uomo, mai
definitivamente pacificata in tutti noi.
N. si era
evidentemente accorta di quel rituale tra me e il figlio e quando passavo la
vedevo seguire i nostri scambi di saluto, rimanendo con la bocca sdentata
semiaperta, forse stupita, incuriosita, ma senza riuscire a dir nulla. In
effetti, avevo l’impressione che in alcuni giorni madre e figlio, oltre a
parlare tra loro, confabulassero ciascuno con se stesso, seduti fedelmente
accanto, ma in orbite parallele. Altre volte, dal mio studio poco distante,
sentivo N. che lanciava urla disperate e arrabbiate, per quel figlio che non
trovava, ma che in realtà non si era mai mosso oltre cento metri dalla
frontiera.
Ricordo un
episodio accaduto qualche tempo fa: N, usava andare di domenica in
Chiesa alla prima messa, forse, come molti di noi, per pregare il Signore
misericordioso, per Grazia ricevuta, per chiedere perdono, per essere
amata. Quella mattina, ad un certo punto, si era alzata allarmata dal suo
posto, nel primo scranno, diffondendo un’ imbarazzante distrazione nei fedeli
concentrati sulla predica. Provando inutilmente a farsi intendere, si era
fiondata sui piccoli ceri davanti al Santo e aveva provato a realizzare qualcosa…spegnerli
accenderli…, non si capiva bene, ma la faccenda sembrava avere per lei
un’importanza tale da non poter essere rimandata.
Ci vollero
un paio di richiami eccessivamente compassionevoli di alcune donne e quello
perentorio ed aulico del prete per indurla a sedersi. Ma N. restò con gli occhi
accesi dalle fiammelle e, a messa finalmente finita, la vidi spegnere ad
uno ad uno quei ceri e con essi la propria agitazione. Mentre la gente usciva,
notai che borbottava qualcosa, sorridendo, ad un’ultima premurosa
donnina, come per scusarsi, ma soddisfatta di aver portato a compimento
quel suo misterioso pensiero. Azzardai, già peccando di sarcasmo, che in cuor
suo ci avesse voluto salvare tutti dalle fiamme: noi, lei e il Santo.
Qualche giorno fa, l’aria di Telese si era fatta già più
intensamente sulfurea, come tipicamente accade con l’arrivo del caldo o in
clima di elezioni, e stavo andando allo studio in bicicletta. Ho visto C. da
solo. Ha sollevato la mano in segno di saluto, e non ho potuto non notare
che per la prima volta aveva sbagliato il nostro rituale. “Probabilmente non
sta bene” ho pensato.
Non ho
avuto il tempo di finire il mio pensiero che l’ho visto: il manifesto a lutto
di N. mi è pesato sull’anima come piombo. Mi sono limitata a ricambiare
il saluto di C . alzando la mano, perché in effetti sentivo anche io, di nuovo,
un freddo invernale.
Per ora
non c’è più quella singolare frontiera.
Scrive
Franco Arminio in Geografia commossa dell’Italia interna che se il luogo finale
è la morte “fin quando siamo vivi è solo una questione di bordi, di orli, di
confine” o, aggiungerei, …di frontiere.
Ciao
a N. e a C.