Aldo Maturo
1^ Dirigente Amminis.Penitenz. (a.r.)
Le
problematiche sull’uso legittimo delle armi, che ha sempre rappresentato
fonte di dibattito in dottrina, rappresenta anche per la Polizia Penitenziaria
motivo di massimo interesse per la specificità delle funzioni svolte: la
custodia dei detenuti. E’ evidente, quindi, che ad essa sono applicabili
le cause di giustificazione speciali indicate nell’art. 53 del c.p. (uso
legittimo delle armi). L’uso delle armi in flagranza di un reato di evasione
era stato esteso alla forza pubblica ed ai militari in servizio esterno alle
carceri dall’art. 1 della L.28.6.1977 n.374. Il provvedimento era stato
adottato durante gli anni del terrorismo quando le carceri di massima sicurezza
venivano sorvegliate all’esterno, 24 ore su 24, dai carabinieri del Gen.dalla
Chiesa e, in alcuni periodi, anche dai soldati dell’esercito.
L’uso legittimo
delle armi da parte dell’agente di polizia penitenziaria che svolge il suo
servizio sul muro di cinta o come ronda armata intorno all'Istituto o come
sorvegliante dei detenuti che lavorano all'aperto, gli deriva dal fatto che
egli è, durante quel servizio, una "sentinella" ed ha una “consegna”:
evitare che avvengano evasioni, che ci siano attacchi al carcere, che sia turbato
l'ordine dell'istituto.
L’art. 385 del
codice penale punisce con la reclusione da sei mesi ad un anno chi, essendo
legalmente arrestato o detenuto, evade. La pena è elevata fino a tre anni
se l'evasione avviene con violenza o minaccia ed è portata da tre a cinque anni
se la violenza e la minaccia è commessa con armi o da due e più persone
riunite.
"Evadere"
significa sottrarsi alla custodia in cui lo Stato detiene una persona
legalmente. Qual’ è , nel caso dell'evasione, l'interesse protetto che
legittima la presenza del servizio di sentinella? Evidentemente è l'interesse
dello Stato a far espiare la pena a chi ha delinquito, il diritto dello Stato a
punire chi si è messo contro le sue leggi, ad isolarlo dalla comunità per
garantire a questa il diritto di vivere liberamente senza correre pericoli.
Ma la cosa non è
semplice come appare. Ad esempio, si può fare uso delle armi contro il detenuto
che:
1 - si sta calando con il lenzuolo dalla finestra ma sta ancora nell'area dell'Istituto?
1 - si sta calando con il lenzuolo dalla finestra ma sta ancora nell'area dell'Istituto?
2- sta scalando il muro di cinta ?
3 - è arrivato ormai sul camminamento di ronda?
4 - nelle Colonie Agricole e nelle Case di Lavoro all’aperto, si sta allontanando
dal posto di lavoro ma è ancora raggiungibile nei confini dell’amministrazione?
E’ noto che nei
nuovi istituti, oltre al muro di cinta, c'è la precinta circondata
dall'inferriata esterna alta mediamente circa 5 metri. In questi
casi, il detenuto che ha scalato il muro di cinta, si è calato all'esterno ma
non ha ancora scavalcato l'ultima recinzione esterna – al di là della quale è
libero - si deve considerare evaso o in procinto di evadere?
Si tratta di casi in
cui il detenuto non si è ancora sottratto alla custodia, ben potendo essere
ripreso per il pronto intervento del personale o perché decide di recedere
dall'azione criminosa. In diritto si dice che non si è ancora consumato
il reato e quindi, essendo possibili altri tipi di intervento per sventare
l'evasione, ritengo che non è pacifico che si possa fare uso disinvoltamente
delle armi.
E' anche vero però
che lo stesso diritto punisce come reato consumato anche il
tentativo, cioè l'insieme di atti diretti in modo non equivoco a commettere
un delitto. Nei casi sopraindicati chi potrebbe negare che si sono poste
in essere azioni dirette in modo non equivoco ad evadere ?
Purtroppo una
risposta precisa ed inequivocabile non esiste e tutto è lasciato alla
valutazione istintiva ed immediata della sentinella da una parte e del
magistrato che farà l'inevitabile inchiesta, dall'altra, se il detenuto viene
ferito, ucciso o riesce ad evadere.
Nessuno mai potrà
compilare un decalogo in cui si dica con chiarezza quando si può o non si può
fare uso delle armi nei casi sopraindicati e il problema è stato da me
inutilmente dibattuto più volte con i magistrati delle Procure delle varie
città dove ho svolto servizio. Personalmente ritengo che se il detenuto
si trova ancora negli spazi interni dell'istituto, e quindi non si è ancora
sottratto alla custodia dello Stato, non può essere fatto oggetto di spari se
chi deve, o dovrebbe intervenire, ha i mezzi e la capacità per fermarlo in
altro modo. Se uso delle armi ci può essere questo deve avvenire soltanto
quando il detenuto sta ponendo in essere gli ultimi atti prima di sottrarsi
definitivamente alla custodia, atti esauriti i quali ormai sarebbe fuori dalla
capacità di intervento delle sentinelle e del personale.
C’è da dire che ove la sentinella nulla facesse potrebbe essere incriminata per
procurata evasione"(art.386 c.p., pena da 6 mesi a 5 anni) o per
"evasione per colpa del custode" (art.387 c.p., pena fino a tre
anni).
Uso delle armi può
essere fatto - si diceva - anche per respingere aggressioni dall’esterno.
Aggressione, in senso lato, è qualunque atto idoneo a procurare turbamento per
la sicurezza e l'ordine dell'istituto. Es. esplosione di bombe sotto il
muro di cinta, uso di autobombe, lancio di armi all'intemo, lancio di scale o
di funi, attacco a mezzo elicottero allo scopo di creare scompiglio e prelevare
un detenuto, spari contro le sentinelle.
Sono tutte ipotesi
che di per sé legittimano l'uso delle armi da parte delle sentinelle o del
personale preposto a guardia del carcere, ma è chiaro che vanno tutte
inquadrate poi nella fattispecie vissuta concretamente. Chi fa fuoco o
chi ordina di far fuoco non può non tener conto delle circostanze di fatto per
le quali va salvaguardata comunque l'incolumità di terze persone
incolpevoli. Es. Gente che passa per strada, detenuti non coinvolti nel
tentativo di evasione, colleghi di lavoro o altri operatori che si trovano
sulla linea di tiro, elicottero che, se colpito, cade sulle case intorno al
carcere, etc. Il diritto all'uso delle armi deve essere quindi l'extrema
ratio, dice la dottrina, cioè l'ultima ipotesi da prendere in considerazione ,
fatto salvo il diritto di terzi a non essere uccisi. Ritengo infatti,
anche se la cosa può essere discutibile, che il valore della vita di persone
innocenti è equivalente o prevalente rispetto al bene che la sentinella deve
proteggere.
Le disposizioni fin
qui esaminate valgono con la stessa estensione e con le stesse precauzioni
anche per il personale del Nucleo Traduzioni e Piantonamenti, sia quando è
impegnato nella scorta di un detenuto dal carcere ad altro luogo (es.aula di
giustizia, ospedale, altro carcere) sia quando è addetto al piantonamento di un
detenuto ricoverato in una struttura ospedaliera. A nessun agente verrebbe in
mente di sparare ad un detenuto che si è divincolato dalla scorta e corre per
le vie della città o nei corridoi del tribunale o di un ospedale.
Concludo questo brevissimo esame della materia delle armi della polizia
penitenziaria per ricordare che l'art. 41 ultimo comma dell'Ordinamento
Penitenziario prescrive che "Gli agenti in servizio all'interno degli
istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga
ordinato dal Direttore”.
L’art.
93 del nuovo Regolamento di Esecuzione (D.P.R.30.6.2000 n.230), stabilisce a
tal fine che qualora si verifichino disordini collettivi con manifestazioni di
violenza o tali da far ritenere che possano degenerare in manifestazioni di
violenza, il direttore dell’istituto, che non sia in grado di intervenire
efficacemente con il personale a disposizione, richiede al prefetto
l’intervento delle forze di polizia e delle altre forze eventualmente poste a
sua disposizione, informandone immediatamente il magistrato di sorveglianza, il
provveditore regionale ed il Dipartimento amministrazione penitenziaria. Inutile
dire, però, che in tal caso sarà stato avvisato il magistrato di turno della
procura che assumerà, con il Direttore e il Comandante, il coordinamento delle
operazioni.