Gli articoli di
stampa si susseguivano quasi giornalmente e i titoli scandivano i mesi con un
assillante countdown: “La Rocca prigioniera” , “Un mistero tra quattro mura”,
“La Rocca a primavera”, “Forse libera tra due mesi”, “Il carcere arenato”, “Via
dalla Rocca”, etc.
Il Direttore
Generale del tempo, Nicolò Amato – sotto una tale pressione - mi invitò
ad aprire con urgenza prospettandomi il trasferimento se avessi ancora
ritardato.
La mia colpa era
quella di rifiutarmi di portare i detenuti in quella struttura ma io
sapevo che, al di là delle poderose apparenze esterne, quel posto era
assolutamente inidoneo a svolgere la sua funzione. Gli stessi progettisti
ne avevano rinnegato la paternità per le infinite trasformazioni subite
in corso d’opera, all’insegna del “risparmio”, tanto per usare un eufemismo.
Le operazioni di
consegna tecnica del carcere c’erano state nell’estate dell’88. Si erano svolte
in maniera del tutto informali. Dopo il giro di routine, alla firma
del verbale i tecnici mi avevano dato un mazzo di chiavi, più “castellane” che
penitenziarie, e una montagna di planimetrie. “Tanti auguri, ne avrà bisogno”
mi avevano detto con un sorriso di compassione prima di risalire in
macchina.
Avevo
accettato con fiducia il trasferimento in un istituto considerato da tutti
all’avanguardia e l’avevo scoperto protagonista della stagione delle
carceri d’oro.
Mi era bastato poco
per capire che quello, senza urgenti interventi riparatori, era l’ultimo posto
dove portare i detenuti di Rocca Costanza. Nella vecchia sede mi salivano sui
tetti, qui li avrei potuti trovare sui terrazzi o per strada. Non esitai a
trasmettere corposi dossier alla magistratura e alla Corte dei Conti, mentre il
ministero approvava uno dietro l’altro gli interventi correttivi richiesti in
una corsa contro il tempo e contro la pubblica opinione.
La città non sapeva
che ero la prima persona interessata ad aprire l’istituto, perché, con la mia
famiglia ero l’unico abitante di quel perimetro desolato di 4 ettari,
privo di qualunque supporto armato, impossibilitato a sguarnire il già
disastrato organico di Rocca Costanza per poter presidiare almeno parzialmente Villa Fastiggi. Solo con moglie e figli in una struttura
incustodita e già oggetto di un clamoroso attentato da parte delle
Brigate Rosse. Notti da incubo, nel silenzio ovattato delle nebbie che
avvolgono la zona.
Ma la città queste
cose non le sapeva e aspettava fremente la “liberazione” di Rocca Costanza. E
quel giorno venne.
“Il giorno più
lungo” titolò finalmente il Resto del Carlino il 1.3.1989. Rocca Costanza era
stata "scarcerata" e i pesaresi pensarono di poter riappropriarsi di quel
luogo che dalla fine del 1400 custodisce tanti misteri, non ultimi quelli
carcerari. Ma era un’illusione e bisognerà ancora attendere per vedere Rocca
Costanza protagonista della vita culturale della città.
Con amara
preveggenza un redattore del Carlino così aveva chiuso l’articolo “Libera e
bella”, uscito a 4 colonne il 26.2.89: “Speriamo che la liberazione di Rocca
Costanza non scateni ora in negativo tutti quei meccanismi perversi
burocratici-politici-amministrativi che sotto il nome di “competenze” affossano
progetti,iniziative e realizzazioni, e che ogni persona che conta lavori nella
consapevolezza che la città di Pesaro potrà ricevere, proprio dall’utilizzo
intelligente di una simile struttura, un vero e reale rilancio nel campo
sociale e culturale.”
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