Viaggio
nella psiche degli agenti di Polizia penitenziaria. Il duro lavoro di chi, per
1500 euro al mese, è esposto a enormi dosi di stress emotivo. Con risultati
che, talvolta, possono essere devastanti.
Cosa
accade nella mente di un agente di Polizia penitenziaria? Come reagisce la
psiche umana al contatto quotidiano con emozioni perturbanti come la
sofferenza, la rabbia, la disperazione? E chi aiuta questi ragazzi e ragazze ad
affrontare un lavoro duro, sottopagato, che moltiplica i rischi di esaurimento
e depressione?
In un momento quanto
mai critico per le carceri italiane, alle prese con la piaga del
sovraffollamento e spesso teatro di episodi di violenza, il periodico Mente
e Cervello 1 dedica un ampio spazio del suo ultimo numero alla “prigione
dei secondini”, l’altra faccia dei 206 istituti di pena attualmente attivi
nel nostro Paese. Dall’altro lato delle sbarre.
In Italia gli agenti
di Polizia penitenziaria sono 37.690, di cui 3.114 donne e 34.576 uomini. Di
questi, meno della metà lavora all’interno di istituti penitenziari. Lo
stipendio massimo di un agente è di circa 1.500 euro al mese, con 40 ore di
straordinario a settimana che possono diventare anche 70. Il tutto a fronte di
un lavoro estremamente faticoso sul piano emotivo, che costringe a ridefinire
concetti come “relazione”, “umanità”, “regolamento”, “ruolo”.
“Il risultato –
spiega Simona Pasquali, psicologa esperta in formazione e gestione delle
risorse umane – è un quadro professionale molto complesso”, in cui la figura
del sorvegliante si sovrappone spesso a quella dello psicologo. Con risultati
alterni, che possono portare ad un cortocircuito mentale noto come sindrome del
burnout, vale a dire dell’operatore “bruciato”.
“Vigilando redimere”. La missione dell’agente di polizia penitenziaria è sintetizzata nel motto del Corpo: “Vigilando redimere”. Due parole che, già nel loro accostamento, riflettono l’ambiguità del ruolo di chi è chiamato a mettere insieme due aspetti difficilmente conciliabili: repressione e riabilitazione.
“Vigilando redimere”. La missione dell’agente di polizia penitenziaria è sintetizzata nel motto del Corpo: “Vigilando redimere”. Due parole che, già nel loro accostamento, riflettono l’ambiguità del ruolo di chi è chiamato a mettere insieme due aspetti difficilmente conciliabili: repressione e riabilitazione.
“E’ difficile
integrare l’istanza punitiva con quella della rieducazione”, spiega Pasquali,
che nel 2007 ha collaborato con il Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria (Dap) per la produzione di Linee di intervento per il contrasto
al disagio lavorativo. “Si tratta di istanze che guardano a versanti diversi
dell’esperienza: da un lato – aggiunge – ci sono criteri formali di natura
normativa, dall’altro c’è la sfera della soggettività”.
L’incontro con i
dolore e il “doppio legame”. Ciò che più mette alla prova gli agenti, però,
è l’incontro con il dolore, con esperienze umane forti o borderline.
“In carcere –
sintetizza la psicologa – sei a contatto con la sofferenza, la disperazione,
l’aggressività, la rabbia, con tutta una serie di emozioni perturbanti che
rischiano di farti perdere la lucidità”. Ecco dunque che l’agente si sente
confuso e spiazzato, sperimentando quella che gli psicologi chiamano una
situazione di “doppio legame”. “La duplicità dell’agente – spiega ancora
Pasquali – può consistere nel percepirsi al tempo stesso in una posizione di
superiorità, datagli dal potere di soddisfare i bisogni fondamentali dei
detenuti, e di impossibilità ad accogliere tutte le richieste”. Come reazione,
in alcuni casi l'agente corre il rischio di diventare “insensibile” alle
richieste dei carcerati, irrigidendosi dietro lo scudo del regolamento.
Il racconto di un agente. Leggendo le testimonianze di alcuni agenti raccolte nel libro “Quella volta che… la Polizia penitenziaria si racconta” (a cura dell’ufficio stampa del Dap), si ha la sensazione dello sforzo mentale a cui questi agenti sono sottoposti. “Il primo giorno pensi di essere preparato e forte – scrive un agente – ma quando entri in sezione nessuno può sapere cosa succederà perché ogni giorno è diverso da tutti gli altri… Quello che non capisci è quale sia il tuo ruolo all’interno di questo ingranaggio. Non c’è libro che ti spieghi come ti devi comportare, se sia meglio essere duri oppure comprensivi e tolleranti… Tu decidi se ascoltare o essere ascoltato, se fare o non fare, se rivolgerti a un superiore o fare di testa tua. Per sbrogliare la matassa e fugare ogni dubbio scegli il ragionamento più semplice e dici a te stesso: "Sì, ma tanto sono solo carcerati’”.
Il senso di abbandono. Testimonianze di questo genere, in tutta la loro drammaticità, gettano luce su alcuni fenomeni riscontrati tra gli agenti: dall’elevatissimo numero di richieste di prepensionamento per sindrome ansioso-depressiva, ai molti casi di suicidio o di automutilazione, passando per gli episodi di violenza ai danni dei carcerati o di altri colleghi.
Senza contare, poi,
la sensazione di essere stati abbandonati dal proprio “datore di lavoro”, lo
Stato, che fatica a fornire le strutture e gli strumenti adatti per un
miglioramento effettivo della situazione delle carceri italiane. “L’agente di
polizia penitenziaria – argomenta Giuseppe Mosconi, sociologo del diritto – è
sottopagato, disconosciuto nei suoi sforzi, iper-responsabilizzato (se succede
qualcosa è colpa sua), socialmente emarginato (spesso tace per vergogna del
proprio lavoro), sradicato (il 90% è emigrato dal sud e non riesce a
integrarsi), costretto a turni massacranti e a catene di comando che lo
collocano sempre in uno stato subordinato”. Tra le mura del carcere è solo,
insieme al detenuto.