Su un muro
commemorativo adiacente l'edificio principale di Ellis Island (dove arrivavano
a New York i piroscafi degli emigranti) è riportato un elenco di nominativi di
oltre 500mila immigrati. Su questo utile
sito il lettore può scoprire se tra gli immigrati in America ci sono stati
anche i propri parenti.
Il Muro con i nomi di Ellis Island |
19 ottobre 2014 di Ernesto Maria Ruffini
Blog Articolo Tre - L'Espresso
In cerca della
visibilità necessaria a sopravvivere politicamente, Matteo Salvini ha
radunato a Milano una folla di leghisti al grido di “chi non salta
clandestino è! ”.
Non
è certo saltellando che si affrontano le questioni e neanche solleticando i
peggiori istinti che si fa politica. Incitare alla guerra tra poveri non
ha mai portato nulla di buono. Ma
non si può pretendere che tutti quelli che si dedicano alla politica siano
degli statisti.
Non
dimenticarti, però, caro Salvini, che tutti siamo stati immigrati e che tutti
abbiamo sofferto al nostro arrivo. Anche chi ha portato il tuo stesso cognome.
Pensa
che, dal 1892 al 1956, i Salvini che sono approdati nel porto di Ellis Island
in cerca di fortuna sono stati ben 228, come risulta da questo utile sito. E
solo negli USA.
Non
è dato sapere che fine abbiano fatto, quale sorte abbiano avuto. E, neanche,
come stiano i loro discendenti ormai americani a tutti gli effetti. Ma forse
non saltellerebbero dalla gioia alla notizia delle tue iniziative.
Spesso
dimentichiamo quello che diamo per scontato. Allora, anche a rischio di non
dire nulla di originale, è opportuno ribadire alcune verità, piuttosto che
passare oltre credendo che la pensiamo tutti allo stesso modo. La memoria
collettiva esiste solo se qualcuno si prende la briga di tenerla viva.
Altrimenti diventa una smemoratezza generale.
È
uno strano Paese il nostro. È stato sufficiente lo spazio di poche generazioni
per dimenticare quando gli emigranti eravamo noi. Quando i Salvini erano gli
immigrati. Erano i nostri nonni ad abbandonare la propria terra, la famiglia e
a dover affrontare la diffidenza e l’ostilità di una terra straniera, nella
speranza di un futuro migliore. Forse tra loro, caro Salvini, c’erano anche i
tuoi avi.
Ormai
sembra solo un mondo lontano, che non ci appartiene più. Navi stipate di
persone e di speranze, strofinacci che avvolgono un po’ di cibo per affrontare
il viaggio, un vestito addosso ed un altro, quello “buono”, ripiegato nella
valigia di cartone per cercare di fare buona impressione.
All’arrivo
nessuno ad accoglierli, anzi. Identificazione, visita medica, quarantena e poi
la speranza e il desiderio di rifarsi una vita.
Retorica?
Ad ascoltare i racconti di chi quei giorni li ha vissuti o a rivedere qualche
foto di quegli anni, non credo proprio.
Come
ci ha ricordato il presidente Napolitano nel 2009 (inaugurando Museo nazionale
dell’emigrazione italiana nel Complesso monumentale del Vittoriano, a Roma), «oggi
che noi accogliamo gli immigrati, non dovremmo mai dimenticare di essere stati
un Paese di emigrazione».
Purtroppo,
però, di quell’esperienza e di quel mondo non c’è più traccia, neanche nel
nostro linguaggio, nelle parole che usiamo: “l’emergenza degli immigrati”
si è trasformata in “emergenza immigrati”.
In
sostanza, l’emergenza viene associata al fenomeno dell’immigrazione dal lato
sbagliato, come a dire «non sono io ad essere razzista, è lui che è di
un’altra razza!». Non sono gli immigrati a vivere nell’emergenza, a dover
fuggire da realtà e vite che per la maggior parte di noi, per fortuna, sono
inimmaginabili. L’emergenza è diventata la nostra. Ci lamentiamo degli
immigrati che invadono il nostro Paese, che ci rubano il lavoro, che ci rubano
la ricchezza, che ci rubano la serenità del benessere che ci siamo conquistati.
Il
Novecento, il secolo della nostra emigrazione, con trenta milioni di Italiani
che hanno lasciato l’Italia chiedendo ospitalità all’estero, ormai ce lo siamo
lasciato alle spalle e con esso anche quel senso di solidarietà e di speranza
che nutrivano gli italiani che ci hanno preceduto.
Pochi
anni dopo quell’ondata di immigrazione che invase gli U.S.A., J.F. Kennedy così
scriveva: «le leggi sull’immigrazione dovrebbero essere generose, dovrebbero
essere eque, dovrebbero essere flessibili. Con leggi siffatte potremo guardare
al mondo, e al nostro passato, con le mani pulite e la coscienza tranquilla».
Ecco,
caro Salvini, per un politico avere la possibilità di guardare al mondo e al
passato con le mani pulite e la coscienza tranquilla è un buon metro di
giudizio.