Hikikomori
(stare da parte) è un’autoesclusione
dalla vita sociale che induce i
soggetti a relegarsi nella propria stanza, limitando i contatti con gli altri
che avvengono quasi solo tramite internet, con profili fittizi, unico contatto
con una società che hanno abbandonato. Ormai sono migliaia anche in Italia.
Matteo Zorzoli 15.2.2018 – Business Insider Italia
Hanno tra i 14 e i 25 anni
e non studiano né lavorano. Non hanno amici e trascorrono gran parte della
giornata nella loro camera. A stento parlano con genitori e parenti. Dormono
durante il giorno e vivono di notte per evitare qualsiasi confronto con il
mondo esterno.
Si rifugiano tra i meandri della Rete e dei social network con
profili fittizi, unico contatto con la società che hanno abbandonato. Li
chiamano hikikomori, termine giapponese che significa “stare in
disparte”. Nel Paese del Sol Levante hanno da poco raggiunto la
preoccupante cifra di un milione di casi, ma è sbagliato considerarlo un
fenomeno limitato soltanto ai confini giapponesi.
“E’
un male che affligge tutte le economie sviluppate – spiega Marco Crepaldi,
fondatore di Hikikomori
Italia, la prima associazione nazionale di informazione e supporto
sul tema – Le aspettative di realizzazione sociale sono una spada di Damocle
per tutte le nuove generazioni degli anni Duemila: c’è chi riesce a sopportare
la pressione della competizione scolastica e lavorativa e chi, invece, “molla
tutto e decide di auto-escludersi”.
Le
ultime stime parlano di migliaia di casi italiani di hikikomori, un
esercito di reclusi che chiede aiuto. Un numero che è destinato ad
aumentare se non si riuscirà a dare al fenomeno una precisa collocazione
clinica e sociale.
Un
fenomeno dai contorni ancora poco chiari
Associazioni come Hikikomori Italia ormai da anni
stanno facendo il possibile per sensibilizzare l’opinione pubblica intorno ad
un disagio che viene troppo spesso confuso con l’inettitudine e la mancanza
di iniziativa delle nuove generazioni. Un equivoco che ha trovato terreno
fertile nel dibattito politico, legislatura dopo legislatura, fornendo
stereotipi come “bamboccioni”, definizione coniata nel 2007 dall’allora
ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, o “giovani italiani choosy”
(schizzinosi) dell’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero, fino ad arrivare al
mare magnum dell’acronimo Neet, i ragazzi “senza studio né lavoro” che, secondo un sondaggio dell’Università Cattolica
del 2017, sarebbero 2 milioni in tutta la Penisola.
Anche
dal punto di vista medico l’hikikomori
soffre di una classificazione nebulosa. Nel manuale diagnostico e statistico
dei disturbi mentali (DSM), la “Bibbia” della psichiatria, è ancora
iscritto come sindrome culturale giapponese: un’imprecisione che tende a
sottostimare la minaccia del disagio nel resto del mondo e che crea pericolose
conseguenze.
“Molto
spesso viene confuso con sindromi depressive e nei peggiori casi al ragazzo
viene affibbiata l’etichetta della dipendenza da internet” – spiega Crepaldi –
Una diagnosi di questo genere normalmente porta all’allontanamento forzato da
qualsiasi dispositivo elettronico, eliminando, di fatto, l’unica fonte di
comunicazione con il mondo esterno per il malato: una condanna per un ragazzo
hikikomori”.
Come si
diventa hikikomori?
L’ambiente scolastico è un luogo vissuto con
particolare sofferenza dagli hikikomori, non a caso la maggior parte di loro propende per l’isolamento
forzato proprio durante gli anni delle medie e delle superiori. E’ in questo
periodo che di solito si verifica il cosiddetto “fattore precipitante”,
ovvero l’evento chiave che dà il via al graduale allontanamento da amici e
familiari. Può essere un episodio di bullismo o un brutto voto a scuola, ad esempio.
“Un
avvenimento innocuo agli occhi delle altre persone, ma che contestualizzato
all’interno di un quadro psicologico fragile e vulnerabile, assume
un’importanza estremamente rilevante – spiega Crepaldi – E’ la prima fase
dell’hikikomori: il ragazzo comincia a saltare giorni di scuola utilizzando
scuse di qualsiasi genere, abbandona tutte le attività sportive, inverte il
ritmo sonno-veglia e si dedica a monotoni appuntamenti solitari come il consumo
sregolato di serie TV e videogames”.
E’ fondamentale intervenire proprio in questo primo stadio del
disturbo, quando si manifestano i
primi campanelli di allarme. In questa fase i genitori e gli insegnanti
rivestono un ruolo cruciale in chiave prevenzione: indagare a fondo sulle
motivazioni intime del disagio e, nel caso, cercare in breve tempo il supporto
di un professionista esterno può evitare il passaggio ad una fase più critica,
che richiederebbe un intervento lungo potenzialmente anche anni.
Italia e
Giappone: due facce della stessa medaglia
È innegabile che la cultura giapponese sia
storicamente caratterizzata da una serie di fattori che aumentano la portata
del fenomeno, tanto da poter già parlare di due generazioni di hikikomori,
la prima sviluppatasi negli anni Ottanta. Il sistema
sociale e scolastico ultra competitivo e il ruolo
della figura paterna, spesso assente a causa di orari di lavoro
estenuanti, sono alla base di aspettative opprimenti, spesso non realizzate.
Seppur con le dovute proporzioni anche in Italia le pressioni sociali
sono molto forti. Determinanti fin dai primi casi di hikikomori
diagnosticati nel 2007, sono il calo delle nascite con il
conseguente aumento dei figli unici, di norma sottoposti a pressioni maggiori,
la crisi economica che rende più lontano l’ingresso (reale) nel
mondo del lavoro e l’esplosione della cultura dell’immagine, esasperata dalla
diffusione capillare dei social network.
In
Italia la sindrome non colpisce solo i maschi, come avviene in Giappone, ma riguarda
anche un discreto numero di hikikomori-femmine, con un rapporto di 70 a 30.
“Per una questione culturale le famiglie considerano, tuttavia, la reclusione
della figlia come un problema minore – spiega Crepaldi – Probabilmente perché
la vedono come una futura casalinga o sperano che un domani si sposi ed esca di
casa”.
All’interno
del contesto italiano, ci sono poi differenze addirittura tra una
regione e l’altra: gli hikikomori del Nord Italia hanno,
infatti, delle caratteristiche diverse rispetto a quelli del Sud Italia.
Proprio per questo il sito di Hikikomori Italia mette a disposizione chat
regionali, in cui i ragazzi possono discutere dei problemi con i loro
conterranei affetti dalla stessa sindrome.
C’è
un’unica regola all’interno della chat: chi ci entra non è costretto ad
interagire, ma è gradita una breve presentazione. Chi non la rispetta, viene
“bannato”. Per chi vuole raccontare la propria storia c’è anche il Forum,
aperto sia ai ragazzi che ai genitori: un mondo parallelo, silenzioso,
impalpabile. Una bacheca di richieste di aiuto e di sofferenza, ma anche di
storie a lieto fine. Come quella di Luca, 25 anni:
“Il giorno e la notte erano identici, dormivo
quando avevo voglia, mangiavo quando avevo voglia. Ho perso tutti gli
amici e lo schermo era uno “stargate” per un altro universo. Il tempo
si dilatava quando cliccavo sulla tastiera e non volevo mai smettere.
Quando dovevo lavarmi fremevo sotto la doccia per rimettermi a
giocare.
Ho passato così più di due anni giocando a Wow [World of Warcraft, un videogioco di strategia ndr] in totale isolamento. Non riuscivo neanche più a camminare. Tutto questo è successo senza che mia madre si accorgesse di nulla: lavorava dalle 8 alle 17 e io facevo finta di andare a scuola. Non avevo più voglia di tornarci. Troppa pressione.
L’isolamento è una battaglia che alla fine diventa una cura. Cresceva dentro di me come un’onda, lentamente, fino al momento in cui tutto iniziava a darmi fastidio, non sopportavo cosa facevo, non sopportavo chi ero.
Oggi ne sono fuori, vivo all’estero e ho una fidanzata bellissima. Sono o sono stato un hikikomori? Non lo so, ma quello che so è che la forza per combattere quel demone sta e risiede solo dentro di voi, nessuno vi può aiutare, nella taverna di qualche montagna virtuale dove voi stessi vi siete persi, con la sensazione di pace che vi avvolge la mente. L’unico consiglio che mi sento di darvi è: scappate da quel computer”.
Ho passato così più di due anni giocando a Wow [World of Warcraft, un videogioco di strategia ndr] in totale isolamento. Non riuscivo neanche più a camminare. Tutto questo è successo senza che mia madre si accorgesse di nulla: lavorava dalle 8 alle 17 e io facevo finta di andare a scuola. Non avevo più voglia di tornarci. Troppa pressione.
L’isolamento è una battaglia che alla fine diventa una cura. Cresceva dentro di me come un’onda, lentamente, fino al momento in cui tutto iniziava a darmi fastidio, non sopportavo cosa facevo, non sopportavo chi ero.
Oggi ne sono fuori, vivo all’estero e ho una fidanzata bellissima. Sono o sono stato un hikikomori? Non lo so, ma quello che so è che la forza per combattere quel demone sta e risiede solo dentro di voi, nessuno vi può aiutare, nella taverna di qualche montagna virtuale dove voi stessi vi siete persi, con la sensazione di pace che vi avvolge la mente. L’unico consiglio che mi sento di darvi è: scappate da quel computer”.