Un
datore di lavoro ha accertato, tramite un’agenzia investigativa privata,
l’abuso dell’utilizzo della legge 104 da parte di un dipendente e lo ha
licenziato. La Cassazione, con sentenza 4 marzo 2014 n.4984, ha rigettato il
ricorso del lavoratore e lo ha condannato anche alle spese processuali e
legali. Dopo l’articolo, è riportata la sentenza integrale.
La natura illecita
dell’abuso del diritto a fruire dei permessi per l’assistenza dei congiunti, di
cui all’art. 33, L. 104/1992, e il ragionevole sospetto che il lavoratore ne
abbia abusato, legittimano il ricorso al controllo occulto c.d. “difensivo” ad
opera del datore di lavoro. L’uso improprio del permesso per l’assistenza dei
congiunti giustifica il licenziamento per giusta causa in quanto compromette
irrimediabilmente il vincolo fiduciario indispensabile per la prosecuzione del
rapporto di lavoro.
Un datore di lavoro
si avvale di un’agenzia investigativa per “pedinare” un proprio dipendente,
sospettato di utilizzare i permessi ottenuti per l’assistenza ai congiunti ai
sensi dell’art 33 della L. 104/1992 al fine di recarsi in vacanza. Scoperto
l’illegittimo uso del permesso, il datore licenzia il dipendente per giusta
causa.
Il dipendente impugna il
licenziamento contestando, in giudizio, la liceità del controllo operato dal
datore e la conseguente utilizzabilità delle risultanze probatorie derivanti
dall’attività investigativa. In particolare, secondo il lavoratore gli artt. 2
e 3 dello Statuto dei lavoratori legittimerebbero, in presenza di un
ragionevole sospetto, solo i controlli c.d. “difensivi” ovvero finalizzati ad
accertare gli illeciti perpetrati a danno del patrimonio aziendale. In nessun
caso, invece, il controllo potrebbe avere ad oggetto l’attività lavorativa
intesa quale adempimento dell’obbligazione di fornire la propria prestazione
lavorativa cui, a dire del lavoratore, sarebbero riconducibili i controlli
effettuati dal datore di lavoro nel caso in esame.
Il Tribunale in primo
grado accoglie il ricorso del lavoratore mentre la Corte D’Appello riforma la
sentenza, argomentando che l’abuso del diritto di cui all’art. 33 L. 104/92
costituisce condotta illecita, tanto nei confronti dell’Inps, che eroga la
corrispondente indennità, quanto nei confronti del datore di lavoro, il quale
dall’abuso subisce comunque un danno, sia in termini economici dovendo,
comunque, accantonare anche per i giorni di assenza il TFR, che organizzativi,
dovendo far fronte all’assenza del lavoratore. La Corte d’Appello ritiene,
inoltre, che nel caso di specie sussista anche il secondo requisito per
accedere ai controlli difensivi ovvero il ragionevole sospetto del
comportamento illecito (difatti due colleghi avevano in sede testimoniale
dichiarato di aver sentito il lavoratore mentre raccontava di essere stato in
vacanza in giorni in cui lo sapevano in permesso). Ad avviso del giudice di
secondo grado, dalla liceità dell’accertamento difensivo consegue
l’utilizzabilità in giudizio degli esiti dello stesso e, in definitiva, la
legittimità del licenziamento per giusta causa.
La decisione è confermata
dalla Corte di Cassazione (sentenza del 8 gennaio 2014,
depositata in data 4 marzo 2014, n. 4984), la quale ribadisce la
legittimità del controllo esercitato dal datore di lavoro attraverso l’impiego
dell’agenzia investigativa e l’utilizzabilità delle relative prove. Il giudice
di legittimità, ritenendo la natura illecita dell’abuso del diritto a
beneficiare dei permessi per l’assistenza dei congiunti, esclude che il
controllo esercitato dal datore di lavoro possa, nel caso di specie,
considerarsi teso ad accertare l’adempimento della prestazione lavorativa, in
quanto effettuato al di fuori dell’orario di lavoro e in fase di sospensione
dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa.
L’utilizzo da parte del
dipendente di permessi con finalità assistenziale per scopi diversi, secondo la
Suprema Corte costituisce poi comportamento idoneo a ledere irrimediabilmente
il rapporto fiduciario, con conseguente legittimità del licenziamento per
giusta causa, condividendo sul punto la decisione del Giudice d’Appello,
adeguatamente motivata anche in relazione ai generali principi della “coscienza
generale”. Su quest’ultimo punto, la Corte ha cura di ricordare come l’art.
2119 sia una norma c.d. elastica, tale per cui la giusta causa rappresenta un
“modello generico”, capace di adeguarsi a una realtà mutevole nel tempo e che
necessita quindi di essere specificato in sede interpretativa.
FONTE:
diritto24.ilsole24ore.com
- A cura di Luisa Mian, Avvocato – Bonelli Erede Pappalardo, Leila Bianchi – Bonelli Erede Pappalardo
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CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 04 marzo 2014, n. 4984
Svolgimento del processo
Con sentenza del
30.12.2010, la Corte di appello di Milano, in riforma della decisione
impugnata, respingeva le domande proposte da N.D. intese alla declaratoria di
invalidità del licenziamento intimato al predetto dall’A. s.p.a. il 30.4.2008
ed alla condanna di quest’ultima alla reintegrazione nel posto di lavoro,
disposta dal Tribunale, sul presupposto dell'illegittimità del controllo
operato dalla società ai fini dell’accertamento del fatto poi contestato in
sede disciplinare e della conseguente inutilizzabilità della prova, in assenza
di un illecito che giustificasse l’attività investigativa.
La Corte del merito
osservava che la contestazione disciplinare verteva sull'illecito utilizzo
di un permesso ex art. 33 I. 104/92 per fini del tutto estranei a quelli
previsti dalla legge, tenuto conto della gravità del contegno del XXX alla
luce della qualifica direttiva posseduta, e rilevava che i fatti non erano
stati contestati, essendone stata negata solo la rilevanza disciplinare nonché
la liceità delle metodologie di accertamento. Pur convenendo con il primo
giudice sul fatto che il controllo a mezzo di agenzia investigativa
fosse consentito solo se indispensabile per l’accertamento di un illecito e se
privo di alternative, osservava la Corte che, tuttavia, non poteva negarsi la natura
illecita dell’abuso del diritto di cui all’art. 33 I. 104/92 citata, tanto ai
danni dell’INPS che erogava l’indennità relativa ai giorni di permesso, sia ai
danni del datore di lavoro a cui carico restavano per tali giornate
l’accantonamento per il t.f.r. ed i disagi per fare fronte all’assenza.
Peraltro, per giustificare il ricorso al controllo occulto
"difensivo" era sufficiente che vi fosse il ragionevole sospetto che
il lavoratore tenesse comportamenti illeciti e che non vi fosse la finalità di
ampliare l’oggetto della contestazione disciplinare. I testimoni escussi
avevano riferito che il XXXX in due occasioni, alla loro presenza, aveva
dichiarato di avere trascorso una vacanza in week end lungo e che, in quanto
svolgenti compiti attinenti al rilascio di permessi, essi erano al corrente che
in quei giorni il XXXX era in permesso per la legge 104. Era, dunque, al
cospetto di tali dichiarazioni, ragionevole il sospetto da parte dell’azienda
che i permessi non fossero utilizzati per l’assistenza alla madre e quindi
doveva ritenersi giustificato il controllo difensivo occulto per l’accertamento
dell’illecito. Dalla liceità dell’accertamento difensivo conseguiva, pertanto,
secondo il giudice del gravame, l’utilizzabilità in giudizio degli esiti dello
stesso, non essendo stata contestata la veridicità dei fatti, la cui gravità
era connessa non solo all’allontanamento temporaneo dall’abitazione materna, ma
al fatto che il XXXX, nel giorno di permesso chiesto per il venerdì 11
aprile 2008, alle 7,55 fosse partito con amici e valigia mettendo tra sé e la
finalità di assistenza del permesso una distanza ed una previsione di rientro
non prossimo, che rendevano evidente come lo stesso fosse stato utilizzato per
altre finalità che la legge garantiva con l’istituto delle ferie. La Corte
territoriale considerava, poi, la posizione del XXXX all’interno dell’azienda,
quadro del Servizio Legale, e le competenze specifiche di laureato in
giurisprudenza, che escludevano ogni possibilità di errore circa la finalità
dei permessi e creavano un specifico pericolo di discredito dell’organizzazione
aziendale ove gli altri lavoratori fossero venuti a conoscenza di week end
allungati dal permesso per assistenza alla madre. L’abuso del diritto veniva,
pertanto, ritenuto tale da integrare una condotta idonea a ledere irrimediabilmente
il vincolo di fiducia posto a fondamento del rapporto di lavoro.
Per la cassazione di tale
decisione ricorre il XXXX, affidando l’impugnazione a cinque motivi, illustrati
nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Resiste, con controricorso
l’A. s.p.a, che espone ulteriormente le proprie difese nella memoria
illustrativa.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il
ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 ed 8 I.
300/70, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., osservando che il controllo dell’
agenzia investigativa non può riguardare in nessun caso né l’adempimento, né
l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale di prestare la propria opera,
essendo l’inadempimento stesso riconducibile, come l’adempimento, alla attività
lavorativa, che è sottratta alla vigilanza altrui, ma deve limitarsi agli atti
illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento
dell’obbligazione contrattuale prospettata. Secondo il ricorrente, appare,
quindi, violativo degli artt. 2 e 3 Statuto avere ritenuto legittimi i
pedinamenti che hanno determinato la contestazione disciplinare prodromica al
licenziamento, in quanto certamente non finalizzati a rilevare illeciti a danno
del patrimonio aziendale, attenendo, invece, all’adempimento dell’obbligazione
di fornire la propria prestazione lavorativa a fronte della percezione della
retribuzione. Occorreva che i controlli occulti fossero disposti contro
attività fraudolente o penalmente rilevanti, laddove la Corte del merito aveva
introdotto il tema dell’abuso del diritto che esulava completamente
dall’interpretazione delle norme citate dello Statuto, collegando a tale
ipotesi di abuso la possibilità di controllo difensivo occulto e scardinando la
consolidata acquisizione interpretativa che ritiene legittima tale forma di
controllo solo ove finalizzata alla tutela del patrimonio aziendale, ovvero
alla verifica di comportamenti delittuosi del lavoratore. Assume il ricorrente
che, se l’esercizio di un diritto potestativo in caso di sviamento della sua
propria funzione può rifluire nell’abuso del diritto stesso, il controllo verte
sulle modalità di esercizio di un diritto, non finalizzato assolutamente a quei
soli scopi che legittimano i controlli occulti. Peraltro, la fattispecie,
diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, non avrebbe integrato
l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, c.p., in assenza di
ogni artificio o raggiro posto in essere dal suo autore.
Con il secondo motivo, il
XXXX lamenta violazione dell’art. 342 c.p.c. e del d. Ig.vo 30.6.2003, n. 196,
e deduce la nullità della sentenza, ex art. 156 e 161 c.p.c., ai sensi
dell’art. 360, n. 4 c.p.c., rilevando come la Corte territoriale abbia
completamente omesso di considerare la circostanza, evidenziata dal giudice di
primo grado, dell’autorizzazione al trattamento dei dati sensibili da parte
degli investigatori privati laddove l’A. non aveva mai riferito alcunché a
proposito dell’esistenza dell’atto di incarico e che ciò doveva indurre la
Corte a dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione ex art. 342 c.p.c.. Ed
invero, era richiesta la conformità dell’incarico alle autorizzazioni del
garante, conformità che costituiva presupposto indispensabile ai fini della legittimità
dell’investigazione e della legittimità del controllo e quindi della
contestazione (in tale senso era la pronuncia del Tribunale). Poiché la
inesistenza di un incarico conforme alle disposizioni del Garante non era
controverso, non era invocabile l’art. 360, n. 5, c.p.c., atteso che la totale
mancanza di motivazione sul punto determinava la nullità della sentenza,
deducibile ai sensi dell’ art. 360, n. 4, c.p.c..
Con il terzo motivo,
viene dedotta l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione circa un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5, c.p.c. e la
violazione degli artt. 246, 416, 3° comma, 257 c.p.c. e dei principi in ordine
alla testimonianza de relato, assumendo il N. che non vi sarebbe stata la prova
del ragionevole sospetto che avrebbe legittimato il ricorso ad un controllo
occulto, ma che, in base al tenore delle testimonianze di F. e V., doveva
ritenersi che il preteso viaggio fosse proprio quello di cui al pedinamento e
che la fonte fosse stata proprio l’Agenzia Investigativa, sicché la circostanza
della vacanza riferita dal XXXX alla persona addetta alla segreteria costituiva
dichiarazione priva di significato univoco, potendo la vacanza essersi
realizzata in giorni estranei al permesso. Aggiunge, quale ulteriore
considerazione a fondamento dell’impugnazione, che neanche sarebbe dato
comprendere, alla luce dei risultati dell’investigazione, in quale data sarebbe
stato effettuato il viaggio in Svizzera al quale si sarebbe riferito il XXXX
conversando con le segretarie e la ragione per cui il predetto si sia indotto a
confidare proprio alle stesse l’uso improprio del permesso ai sensi della legge
104. Peraltro, il M., firmatario della contestazione, aveva un interesse in
causa che avrebbe potuto giustificare un suo intervento adesivo, atteso che, in
caso di definitivo accertamento dell'illegittimità del licenziamento, l’A.
avrebbe potuto rivalersi su di lui. La mancanza di motivazione
sull’attendibilità del teste, una volta ritenuta la sua capacità a deporre, si
traduceva, poi, in un vizio censurabile ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., ed
anche la F. e la V. non potevano essere considerate testi di riferimento.
Infine, si assume che il G., indicato de relato dal M., rappresentando l’A.,
non era persona estranea alla controversia, per cui non era possibile
acquisirne la deposizione.
Con il quarto motivo, il
XXXX deduce la nullità della sentenza ai sensi degli artt. 156 e 161 c.p.c., ex
art. 360 n. 4 c.p.c.) ed ascrive alla decisione violazione dell’art. 5 L. 604/66
ed omessa motivazione, evidenziandone la totale assenza con riguardo a fatti
controversi e decisivi per il giudizio, tra i quali l’avere prestato cure alla
propria madre in data 11.4.2008, non potendo ritenersi che non vi sia stata
contestazione della veridicità dei fatti contestati.
Con il quinto motivo, il
ricorrente si duole della violazione degli artt. 1 L. 604/66, 2119 e 2106 c. c.
e rileva ancora la nullità della sentenza, ex art. 156 e 161 c.p.c. oltre che
l’omissione od insufficienza della motivazione circa un fatto controverso e
decisivo per il giudizio, sostenendo che la contestazione relativa a
fattispecie analoga a quella di abuso di congedo parentale non era in linea con
i principi in materia di proporzionalità del licenziamento disciplinare ed alla
valutazione della condotta secondo i criteri applicativi di norme elastiche, da
condursi con giudizio di valore adeguato al contesto storico sociale. Assume
che il giudizio della Cassazione deve ritenersi esteso alla sussunzione del
fatto nell’ipotesi normativa, con valutazione di un contegno che nelle finalità
del permesso contempli anche l'esigenza dalla persona che assiste di avere
ulteriore occasione di riposo o di stacco e ciò anche nella prospettiva di un
giudizio sulla proporzionalità della sanzione.
Il ricorso è infondato
Il primo motivo deve
essere disatteso stante quanto ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in
ordine alla portata delle disposizioni (artt. 2 e 3 della legge n. 300 del
1970), che delimitano - a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in
coerenza con disposizioni e principi costituzionali - la sfera di intervento di
persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi - e cioè
per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza
dell'attività lavorativa (art. 3) -, ma non precludono il potere
dell'imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (quale, nella
specie, un'agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per
la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare
l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze
specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ.,
direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica. Ciò non
esclude che il controllo delle guardie particolari giurate, o di un'agenzia
investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né
l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la
propria opera, essendo l'inadempimento stesso riconducibile, come
l'adempimento, all'attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta
vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non
riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione (cfr. , in tali termini,
Cass. 7 giugno 2003, n. 9167). Tale principio è stato ribadito ulteriormente,
affermandosi che le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare
nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3
dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori,
restando giustificato l'intervento in questione non solo per l’avvenuta
perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in
ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di
esecuzione (v. Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590). Né a ciò ostano sia il
principio di buona fede sia il divieto di cui all'art. 4 dello Statuto dei
lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e
quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d'opera
tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro (cfr.
Cass. 10 luglio 2009 n. 16196).
Nel caso considerato il
controllo finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex
art. 33 L. 104/92 (suscettibile di rilevanza anche penale) non ha riguardato
l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo stato effettuato al di
fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione
principale di rendere la prestazione lavorativa. Deve, pertanto, ritenersi che
la decisione impugnata sia conforme ai principi sanciti in materia ed in linea
con gli orientamenti giurisprudenziali richiamati.
Quanto al secondo motivo
di ricorso, che evidenzia la nullità della decisione per avere superato,
omettendo ogni motivazione al riguardo, quanto affermato nel capo della
sentenza di primo grado con riguardo alla mancanza di un atto di incarico
conforme alle specifiche autorizzazioni del Garante per la protezione dei dati
personali, occorre considerare che in realtà l’affermazione, costituendo un
mero inciso di motivazione, reso ad abundantiam, non necessitava di espressa
impugnazione, e quand’anche si ritenesse diversamente, la fattispecie implicava
il coinvolgimento di dati personali non sensibili e chiaramente pertinenti
rispetto allo scopo perseguito dalla società che, come sopra detto, era del
tutto rispettoso delle norme dello Statuto poste a tutela del lavoratore. Non
si poneva, pertanto, una questione di acquiescenza ad un capo di decisione
autonomo, idoneo anche da solo a sorreggere la decisione, sicché l’asserita
violazione dell’art. 342 c.p.c. risulta, in definitiva, destituita di giuridico
fondamento.
Il terzo motivo è
ugualmente infondato. Nella prima parte della censura si assume che le
circostanze riferite dalle testi F. e V. sarebbero le stesse di cui
all’accertamento investigativo, sicché sostanzialmente non vi era stato il
sospetto ingenerato da circostanze preventivamente acquisite da tali testi, ma
il datore avrebbe affidato il mandato all’agenzia a scopo meramente
esplorativo. La censura mira in tale maniera a sollecitare una non consentita
valutazione del merito, in contrasto con l’insegnamento di questa Corte,
secondo cui il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi
della motivazione della sentenza, deve contenere la precisa indicazione di
carenze o di lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione (o
il capo di essa) censurata, ovvero la specificazione di illogicità, o ancora la
mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, e quindi l'assoluta
incompatibilità razionale degli argomenti e l'insanabile contrasto degli
stessi, mentre non può farsi valere il contrasto dell'apprezzamento dei fatti
compiuto dal giudice di merito con il convincimento e con le tesi della parte,
poiché, diversamente opinando, il motivo di ricorso di cui all'art. 360 n. 5
cod. proc. civ. finirebbe per risolversi in una richiesta di sindacato del
giudice di legittimità sulle valutazioni riservate al giudice di merito (v. tra
le altre, Cass. 5 marzo 2007 n. 5066, Cass. 5274/2007 e, precedentemente, Cass.
15693/2004). La seconda parte della censura verte, invece, sulla ritenuta
incapacità a deporre del teste M., ma in primo luogo deve rilevarsi che nessun
accenno viene fatto ali termini ed ai modi in cui una tale eccezione era stata
tempestivamente sollevata nella fase del merito. Vero è, poi, che ove la
capacità a deporre del teste non possa essere messa in discussione per non
essere stata la relativa questione tempestivamente sollevata, il giudice del
merito non è esonerato dal potere - dovere di esaminare l'intrinseca
attendibilità di detto testimone, specialmente in caso di contrasto tra le
risultanze di prove diverse, e legittimamente può tener conto dell'interesse
del teste all'esito del giudizio, anche là dove tale interesse non sia
formalmente tale da legittimare la sua partecipazione allo stesso, (cfr. Cass.
18 marzo 2003 n. 3956). Nel caso considerato non si ravvisano, tuttavia, errori
di valutazione idonei a legittimare la censura come prospettata anche con
riguardo al profilo dell’attendibilità delle deposizioni acquisite, essendo
state le testi di riferimento legittimamente escusse sulla base
dell’indicazione di conoscenza dei fatti ad esse attribuita.
Il quarto motivo solleva
una critica avulsa dalle risultanze processuali laddove si contesta l’iter
argomentativo in relazione alla circostanza che la contestazione da parte del ricorrente
vi era stata anche con riguardo all’effettivo verificarsi dei fatti contestati.
Ed invero, posta la rilevanza probatoria attribuibile per quanto sopra detto ai
risultati dell’investigazione, non rilevano circostanze ulteriori riferite alla
assistenza comunque prestata alla madre dal N. prima di partire per il week
end, permanendo l’abuso del diritto connesso all’utilizzo improprio del
permesso ex art. 33 L. 104/92.
Ove l'esercizio del
diritto soggettivo non si ricolleghi alla attuazione di un potere assoluto e
imprescindibile, ma presupponga un'autonomia comunque collegata alla cura di
interessi, soprattutto ove si tratti - come nella specie - di interessi
familiari tutelati nel contempo nell'ambito del rapporto privato e nell'ambito
del rapporto con l'ente pubblico di previdenza, il non esercizio o l'esercizio
secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può
considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall'ordinamento.
L'abuso del diritto, così
inteso, può dunque avvenire sotto forme diverse, a seconda del rapporto cui
esso inerisce, sicché, con riferimento al caso di specie, rileva la condotta
contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, nei
confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto al
permesso si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del
dipendente e sopporta comunque una lesione (la cui gravità va valutata in
concreto) dell'affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre rileva l'indebita
percezione dell'indennità e lo sviamento dell'intervento assistenziale nei
confronti dell'ente di previdenza erogatore del trattamento economico. In base
al descritto criterio della funzione, deve ritenersi verificato un abuso del
diritto potestativo allorché il diritto venga esercitato, come nella specie,
non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività. La
condotta del ricorrente si è posta in contrasto con la finalità della norma su
richiamata, e pertanto la sua connotazione di abuso del diritto e la idoneità,
in forza del disvalore sociale alla stessa attribuibile, a ledere
irrimediabilmente il rapporto fiduciario correttamente sono state ritenute dal
giudice del gravame capaci di integrare il comportamento posto dal datore a
fondamento della sanzione disciplinare.
Il quinto motivo verte
sulla correttezza del giudizio di proporzionalità espresso dalla Corte
territoriale con riguardo alla condotta del N.. In ordine ai criteri che il
giudice deve applicare per valutare la sussistenza o meno di una giusta causa
di licenziamento, la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente
univoci, affermando ripetutamente (come ripercorso in Cass., n. 5095 del 2011 e
da ultimo ribadito da Cass. 26.4.2012 n. 6498) che, per stabilire in concreto
l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il
carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro,
ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la
gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva
e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed
all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra
tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento
fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in
concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. È stato,
altresì, precisato (Cass., n. 25743 del 2007) che il giudizio di
proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell'illecito commesso -
istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione
della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al
concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al
riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere
valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non
scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicché l'irrogazione della
massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un
notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3)
ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria
del rapporto (art. 2119 c.c.).
In tema di ambito
dell'apprezzamento riservato al giudice del merito, è stato condivisibilmente
affermato (cfr. fra le altre, Cass. n. 8254 del 2004 e, da ultimo Cass.
6498/2012 cit.) che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non
consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto, è una nozione che
la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare,
articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile
alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante
un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa
mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza
generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali
specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro
disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di
legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in
giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue
specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di
licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al
giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o
giuridici. A sua volta, Cass. n. 9266 del 2005 ha ulteriormente precisato che
l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c.,
(norma c.d. elastica) compiuta dal giudice di merito - ai fini della
individuazione della giusta causa di licenziamento - mediante riferimento alla
"coscienza generale", è sindacabile in cassazione a condizione, però,
che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si
limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga,
invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto
agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento esistenti nella
realtà sociale.
Al riguardo deve rilevarsi
che la decisione impugnata dal lavoratore sotto tale profilo appare rispettosa
dei principi di diritto enunciati in materia da questa Corte, in quanto il
giudice dal gravame ha dato conto delle ragioni poste a fondamento della
stessa, valorizzando, ai fini della valutazione della gravità della condotta,
non solo e non tanto l'allontanamento temporaneo dall’abitazione materna "quanto
il fatto che XXXX nel giorno del permesso ex art. 33 chiesto per la giornata di
venerdì 11 aprile, alle 7,55 sia partito con amici e valigia al seguito, così
mettendo fra sé e la finalità di assistenza del permesso una distanza e una
previsione di rientro non prossimo che rendono del tutto evidente che il
permesso .... è stato utilizzato per altra finalità, che la legge garantisce
con l’apposito istituti delle ferie". In tale modo il XXXX - come
condivisibilmente osservato dal giudice del merito - ha violato, attraverso
l’abuso del relativo diritto, la finalità assistenziale allo stesso connessa e
la condotta posta in essere è stata, pertanto, coerentemente ritenuta capace di
integrare anche sotto il profilo dell’elemento intenzionale un comportamento
idoneo alla ravvisabilità della giusta causa del recesso, sia perché le
eventuali convinzioni personali del ricorrente di potere fare affidamento in
una prassi consolidata o nella collaborazione di una badante sono dei tutto
irrilevanti in presenza di comportamento che ha compromesso irrimediabilmente
il vincolo fiduciario, sia perché la sospensione dell’attività lavorativa era consentita,
come chiarito in sentenza, solo per la finalità assistenziale garantita dal
permesso.
Peraltro, deve anche
aversi riguardo al fatto che, come, affermato dalla giurisprudenza di questa
Corte, l’intensità della fiducia richiesta è differenziata a seconda della
natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione parti,
dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono e
che il fatto deve valutarsi nella sua portata oggettiva e soggettiva,
attribuendo rilievo determinante alla potenzialità del medesimo a porre in
dubbio la futura correttezza dell’adempimento (cfr., tra le altre, Cass.
10.6.2005 n. 12263).
Per tutte le
esposte considerazioni, il ricorso deve essere respinto.
Le spese del presente
giudizio, in forza del principio della soccombenza, cedono a carico del
ricorrente, e vanno liquidate nella misura di cui al dispositivo.
P .Q.M.
Rigetta il
ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
del presente giudizio, liquidate in euro 100,00 per esborsi ed in euro 3000,00
per compensi professionali, oltre accessori come per legge.