martedì 9 dicembre 2025

LA CAMERA DI CONSIGLIO

 Siamo nel 1987, nell’atto finale del Maxi processo di Palermo, il più grande processo penale della storia italiana. In questa occasione otto giurati, quattro donne e quattro uomini, vengono chiusi in una camera di consiglio per trentasei giorni. Il loro compito è quello di stabilire le condanne o le assoluzioni per ben 470 imputati. Ogni giorno nascono tensioni, dubbi, alleanze e rotture. Così, tra paure e scambi inaspettati, la camera di consiglio diventa il teatro di un confronto umano unico. La sentenza sancirà 346 condannati, 114 assolti, 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. 

 

Simone Emiliani

 

 

Dopo un anno e dieci mesi del Maxiprocesso per crimini di mafia che si è svolto a Palermo, dove per la prima volta lo Stato è riuscito a infliggere una condanna collettiva a Cosa Nostra, l'11 novembre 1987 la corte si riunisce in camera di consiglio. Otto giurati, blindati in un appartamento-bunker del carcere dell'Ucciardone, devono decidere condanne e assoluzione per oltre 460 imputati. 

 

 

Il primo, in ordine alfabetico, è Giovanni Abbate, l'ultimo Benedetto Zito. Sono quattro uomini e quattro donne, non possono avere nessun tipo di contatto con l'esterno. Non ci sono televisione, radio e giornali ma solo carte processuali. L'unico contatto con l'esterno è un terrazzino.

Non mancano momenti di tensione, soprattutto tra il Presidente e il Giudice, che si scontrano, per esempio, sul destino di Bernardo Brusca e Giuseppe Calò. Molti di loro devono convivere con le proprie fragilità e i propri dubbi. Alcuni hanno paura anche del destino che li attende una volta usciti da lì nel caso dovessero incontrare un mafioso per strada. Dopo trentasei giorni, che rappresentano la camera di consiglio più lunga della storia giudiziaria italiana, la corte ha pronto il dispositivo della sentenza: 346 condannati, 114 assolti, 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. 

 


"Il mondo resterà fuori da queste mura. Nessuno può uscire, nessuno può entrare". Sono queste le parole che il presidente della giuria interpretato da Sergio Rubini dice a tutti gli altri componenti prima di iniziare a stabilire la colpevolezza o l'innocenza degli imputati.

I materiali di repertorio della parte iniziale introducono la ricostruzione di quei 36 giorni d'isolamento, in un cinema di dichiarata impostazione teatrale basato soprattutto sulla forza della parola. Da questo punto di vista il riferimento a La parola ai giurati di Lumet sembra scontato; l'elemento verbale è infatti fondamentale per alimentare i conflitti e la tensione, soprattutto nelle discussioni tra il Presidente e il Giudice interpretato da Massimo Popolizio.

Forse è questo rapporto, già teso, che poteva essere maggiormente inasprito per essere più coinvolgente, così come la messa a fuoco degli altri giurati mentre stanno discutendo la sorte degli imputati. Fiorella Infascelli, che ha scritto la sceneggiatura assieme a Mimmo Rafele con la consulenza di Francesco La Licata sviluppandola con la consulenza di Pietro Grasso (era il giudice che faceva parte degli otto giurati della camera di consiglio dopo il maxiprocesso) sceglie invece di alternare frammenti delle discussioni sulle pene e le assoluzioni con una dimensione più intimista: le perle della collana di Maria Nunzia (interpretata Betti Pedrazzi), l'armonica di Luigi (Claudio Bigagli) con riferimento sentimentale al cinema di Frank Capra. C'è solo un momento in cui la parte privata sortisce un effetto coinvolgente che riguarda la storia di Lidia (Roberta Rigano) nel momento in cui racconta la drammatica vicenda del padre.

Infascelli ritorna a un cinema di mafia a dieci anni da Era d'estate, che mostrava un altro isolamento, con i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che erano stati trasferiti d'urgenza all'Asinara nel 1985 per motivi di sicurezza. L'impeto civile resta autentico e intatto, l'effetto claustrofobico e drammatico risulta invece più balbettante.

A volte, più che una rappresentazione cinematografica di quell'evento, La camera di consiglio sembra avere l'effetto di un reading. Si vede dalla recitazione impeccabile degli attori che però non si discostano dai dialoghi dei loro personaggi, tranne Massimo Popolizio, che aveva già interpretato Giovanni Falcone in Era d'estate; è l'unico infatti che provoca quelle piccole scosse di cui il film avrebbe avuto maggiormente bisogno per gran parte della sua durata e non solo sporadicamente.

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