lunedì 15 giugno 2015

HALDEN : UN'ALTRA IDEA DEL CARCERE


        
Un bell'articolo del New York Times spiega perché il carcere norvegese accusato di essere troppo indulgente non fa bene ai detenuti: fa bene a tutta la Norvegia.  A circa cinque anni dalla sua apertura, la giornalista  Jessica Benko ha visitato Halden per raccontare la vita quotidiana all’interno della prigione norvegese e per capire se l’esperienza di un carcere il più possibile accogliente e simile al mondo esterno stia funzionando.     
                              
Corridoio di Halden

  Tratto da "Halden, un'altra idea del carcere"
di Andrea Fiorello  10.4.2015 – Il Post

 
Il carcere norvegese di Halden è considerato quello che garantisce le più alte condizioni di civiltà e rispetto umano del mondo: quando fu aperto l’8 aprile del 2010 gran parte della stampa internazionale lo definì, in modo piuttosto demagogico e superficiale, una “prigione a cinque stelle” perché le sue celle hanno la tv e il frigorifero, l’estetica di edifici e arredi è molto curata, e il suo muro di cinta è confuso tra gli alberi ed è privo di accessori minacciosi.



Partendo dall’idea che le carceri punitive non funzionano in termini di “rieducazione” e maggior sicurezza per i cittadini, nel realizzare Halden il governo norvegese ha seguito il principio secondo cui è necessario che i detenuti siano trattati umanamente affinché abbiano maggiori possibilità di reinserimento nella società e minori incentivi a compiere nuovi reati: per questo la prigione – che è costata quasi duecento milioni di euro e il lavoro di dieci anni – è dotata di uno studio di registrazione, percorsi da jogging, una cucina comune e una foresteria per i parenti che si fermino in visita ai detenuti.
A circa cinque anni dalla sua apertura, la giornalista del New York Times Magazine Jessica Benko ha visitato Halden per raccontare la vita quotidiana all’interno della prigione norvegese e per capire se l’esperienza di un carcere il più possibile accogliente e simile al mondo esterno stia funzionando. Benko scrive che dall’esterno Halden non sembra nemmeno un carcere: il muro di cinta che lo circonda è alto circa otto metri, ma fuori dal suo perimetro non ci sono né bobine di filo spinato, né recinzioni elettrificate e tantomeno torrette presidiate da cecchini istruiti a sparare su possibili fuggitivi. Eppure, scrive la giornalista, in questi cinque anni nessuno ha mai provato a fuggire.
Halden - Sala da Pranzo
Confrontato con le strutture penitenziarie di altri paesi – racconta Benko – Halden sembra qualcosa di completamente fuori dal mondo: le sue strutture moderne, accoglienti e ben arredate, la libertà di movimento che offre (compatibilmente con la detenzione) e l’atmosfera calma e silenziosa sono caratteristiche opposte a quelle delle carceri che ci sono più o meno familiari. Queste attenzioni nei confronti degli occupanti sono la materializzazione dei principi norvegesi riguardo alle punizioni e al perdono: il trattamento dei detenuti è totalmente dedicato a prepararli per la vita che dovranno condurre quando usciranno dalla prigione. In Norvegia non solo non c’è la pena di morte, ma neppure l’ergastolo: la pena massima per qualsiasi crimine è di 21 anni di detenzione. “Meglio fuori che dentro” è il motto non ufficiale dell’autorità penitenziaria norvegese, che si propone la reintegrazione nella società per tutti i detenuti che vengono rilasciati: questo dipartimento statale lavora con le altre agenzie governative per assicurare una casa, un lavoro e l’accesso ai servizi di assistenza sociale per ciascun carcerato prima ancora che venga rilasciato.
Grazie a un reddito pro capite tra i più alti del mondo, che deriva soprattutto dall’estrazione di petrolio nel Mare del Nord, la Norvegia può permettersi di garantire un welfare esteso ai suoi cittadini e di investire molto denaro nel suo sistema carcerario: secondo i dati del Vera Institute of Justice di New York, infatti, un detenuto di Halden costa al sistema carcerario norvegese circa 85mila euro l’anno, rispetto ai 28.500 euro spesi per un detenuto negli Stati Uniti.(…)
In Norvegia la pena di morte per i civili fu eliminata nel 1902, mentre l’ergastolo venne abolito nel 1981; fino al 1998, però, le prigioni norvegesi funzionavano in maniera simile a quelle degli altri paesi democratici. In quell’anno il Ministero della Giustizia riformò i metodi e gli obiettivi del sistema penitenziario nazionale, dando esplicita priorità alla riabilitazione dei prigionieri attraverso l’educazione, la formazione lavorativa e la terapia. (…)
 Halden fu la prima prigione costruita dopo questa serie di riforme, così la riabilitazione divenne il fondamento della sua progettazione: ogni caratteristica della struttura fu sviluppata con l’obiettivo di moderare la pressione psicologica sugli occupanti, ridurre i conflitti e minimizzare le tensioni interpersonali. Per questo all’interno del muro perimetrale, a separare la prigione dalla campagna circostante, ci sono quasi 50mila metri quadri di foresta tipica del sudest norvegese, un paesaggio composto di cespugli di mirtillo, pini silvestri, felci, muschi e betulle. Secondo Gudrun Molden – una degli architetti che hanno progettato Halden – la foresta di mirtilli non è solo un ambiente naturale utile alla riabilitazione, ma per i norvegesi rappresenta un paesaggio familiare, che fa parte della crescita e dei ricordi di ciascuno.

Halden - Panoramica
I
In tutto il mondo, la maggior parte delle prigioni di massima sicurezza è realizzata su terreni completamente piatti e privi di vegetazione, per ridurre al minimo il rischio di fughe e per togliere ai detenuti la possibilità di nascondersi. Jan Stromnes, vicedirettore del carcere, ha raccontato a Benko che quando alcuni membri dello staff provenienti da altre prigioni norvegesi arrivarono la prima volta a Halden, si preoccuparono per la presenza del bosco: «Erano piuttosto sorpresi dal fatto che ci fossero alberi e dal loro numero. Non sarebbe stato meglio rimuoverli? E cosa sarebbe successo se i detenuti si fossero arrampicati? Noi rispondemmo che, beh, se si fossero arrampicati avrebbero potuto sedersi sui rami e restarci finché non si fossero stancati e a quel punto sarebbero tornati giù» e sorridendo ha aggiunto «Nessuno ha mai provato a nascondersi nel bosco. Ma anche se provassero a scappare là dentro non andrebbero molto lontano: resterebbero comunque dentro».
“Dentro” significa all’interno del perimetro del muro di cinta, l’elemento che più di ogni altro definisce il carcere. Quello di Halden è visibile da ogni punto della prigione e rappresenta un ineludibile promemoria che ricorda costantemente ai detenuti la loro condizione. Poiché gli edifici di Halden sono stati concepiti appositamente per essere “a misura d’uomo”, hanno un’ampiezza modesta e non sono più alti di due piani; in un contesto simile, il muro diventa una presenza di dimensioni notevoli, scrive Benko. Le due responsabilità principali del sistema penitenziario – detenzione e riabilitazione – sono in costante tensione tra loro e gli architetti che progettarono Halden pensarono che il muro avrebbe potuto rappresentare la prima: «Ci siamo affidati al muro» come simbolo e strumento di punizione, ha spiegato Molden.


Halden - Sala incontri
Quando nel 2002 Molden e i suoi collaboratori visitarono l’area di Halden, in preparazione al concorso internazionale indetto per progettare la prigione, decisero che avrebbero lasciato il contesto naturale più intatto possibile: per dirigersi alle proprie attività quotidiane di scuola, lavoro o terapia, i detenuti avrebbero camminato all’aperto, su e giù per le colline, su superfici irregolari, esattamente come avrebbero fatto al di fuori della prigione. Gli architetti decisero di realizzare gli edifici abitati dai detenuti a forma di anello, mentre nella scelta dei materiali presero ispirazione dai colori della natura circostante. Il materiale principale di cui sono fatti gli edifici è un mattone di cotto annerito; per rappresentare la detenzione è stato scelto un materiale “duro”, pannelli di acciaio zincato, mentre il legno di larice non trattato – con le sue sfumature che vanno dal tortora al grigio chiaro – rappresenta il lato “morbido” associato alle idee di riabilitazione e crescita.
Il sistema penitenziario norvegese enfatizza la “sicurezza dinamica”, un metodo che vede le relazioni interpersonali tra gli addetti e i detenuti come il fattore fondamentale per garantire la sicurezza all’interno del carcere. L’opposto di questo approccio è rappresentato dalla “sicurezza statica”, predominante nella maggior parte delle prigioni di massima sicurezza, che si affida a un ambiente progettato per prevenire i comportamenti pericolosi dei detenuti. In questo tipo di carceri gli occupanti sono costantemente sorvegliati da videocamere, costretti da porte che possono essere chiuse a distanza, mentre il vandalismo e la violenza sono evitati grazie a un mobilio a prova di manomissione. Quando devono essere spostati, i detenuti sono ammanettati e scortati a destinazione, mentre le guardie carcerarie vengono addestrate a ridurre al minimo le interazioni umane per evitare il rischio di scontri.
La sicurezza dinamica non cerca di limitare i danni o di rendere le violenze impossibili, ma si occupa di prevenirle favorendo le interazioni tra detenuti e guardie carcerarie: durante la progettazione di Halden, ad esempio, agli architetti fu ordinato di fare in modo che le guardiole fossero più piccole possibili, così da spingere gli addetti della prigione a passare il proprio tempo nelle aree comuni insieme ai carcerati. A Halden, infatti, le guardie socializzano con i detenuti ogni giorno e conversano con loro mentre prendono un caffè, un tè o durante un pasto. Le aree esterne del carcere sono sorvegliate da telecamere, ma i detenuti spesso si muovono senza accompagnamento, usufruendo di un basilare livello di fiducia che l’amministrazione penitenziaria giudica essenziale per il loro progresso personale. Nelle classi dove si fa lezione, nei laboratori, nelle aree comuni o nelle zone delle celle, invece, non ci sono telecamere a riprendere quanto succede; questa sorveglianza molto blanda potrebbe permettere a un detenuto con cattive intenzioni di tenere comportamenti violenti, ma questo evidentemente non succede: nei cinque anni di funzionamento di Halden, la cella d’isolamento non è mai stata usata.
Halden - Interno di una sezione
Benko fa notare che la relativa calma della vita di Halden non dipende dalla natura tranquilla dei norvegesi o dalla loro omogeneità come gruppo etnico: solo tre quinti dei detenuti del carcere, infatti, sono cittadini norvegesi, gli altri provengono da 30 nazioni (prevalentemente Europa dell’est, Africa e Medio Oriente) e parlano norvegese poco o per niente. Per questa ragione, la “lingua franca” del carcere è l’inglese, necessario perché le guardie carcerarie possano comunicare con i prigionieri stranieri.
Dei 251 detenuti di Halden, circa la metà sono stati imprigionati per crimini violenti come omicidio, aggressione o stupro, mentre un terzo è dentro per traffico o spaccio di droghe; nonostante ciò, incidenti violenti o minacce sono piuttosto rari e avvengono quasi tutti nell’Unità A. Questa è la zona più restrittiva del carcere: ospita i detenuti che hanno bisogno di un’assistenza medica o psichiatrica stretta, oppure quelli che hanno commesso crimini che li metterebbero in pericolo nelle Unità B e C, le aree più “libere” del carcere dove la maggior parte degli occupanti convive durante il giorno seguendo i programmi scolastici, lavorativi o di terapia. (…)
Quando Halden fu aperto, i giornali descrissero l’arredamento del carcere come “lussuoso”, “elegante” e lo compararono a quello di un piccolo hotel. In realtà – scrive Benko – i mobili di Halden non sono molto diversi da quelli di un dormitorio universitario: la loro caratteristica particolare, piuttosto, è quella di essere mobili “normali”, cioè non progettati per un carcere. Gli arredi potrebbero essere usati come corpi contundenti o dati alle fiamme; anche in cucina – come un detenuto ha fatto notare – ci sono molti oggetti che potrebbero essere usati come armi, se qualcuno lo volesse: i piatti sono di ceramica, i bicchieri di vetro, le posate di metallo e a disposizione dei detenuti ci sono anche lunghi coltelli da cucina, legati a un cavo di metallo plastificato.

Halden - Murales
Gli agenti penitenziari cercano di limitare ogni tensione che potrebbe sfociare in violenza: se due detenuti hanno problemi, una guardia o il cappellano della prigione li riuniscono per una sessione di mediazione che dura finché i due non hanno raggiunto un accordo pacifico e si sono stretti la mano. Anche le gang rivali accettano di non combattersi all’interno del carcere, benché la promessa non resti valida quando i componenti vengono rilasciati. I pochi incidenti violenti accaduti a Halden si sono verificati quasi esclusivamente nell’Unità A, dove sono tenuti i prigionieri con problemi psichiatrici più gravi. Se un detenuto viola le regole, le conseguenze sono rapide, coerenti e applicate in modo uniforme. Eventuali comportamenti recidivi vengono puniti con la reclusione all’interno della cella durante le ore di lavoro, a volte senza la possibilità di guardare la televisione: Benko scrive che un detenuto le ha raccontato di un prigioniero proveniente dall’Europa dell’Est che riuscì a connettere il suo televisore a Internet e per questo l’apparecchio gli venne tolto per cinque mesi. «Cinque mesi!» ha detto stupito il detenuto alla giornalista, «Non so come abbia fatto a sopravvivere».
Benko ammette che a un primo sguardo è difficile credere che Halden, con i suoi 251 detenuti, possa rappresentare un modello per un paese come gli Stati Uniti d’America, dove la media nelle prigioni di massima sicurezza è di 1.300 prigionieri. Anche i numeri totali – 3.800 detenuti in Norvegia, 2,2 milioni di USA – potrebbero apparire logisticamente e finanziariamente incomparabili. (…) ,
Non è facile valutare esattamente quanto il metodo norvegese funzioni. Per provare ad avere più dati, la giornalista del New York Times Magazine ha incontrato l’antropologo Ragnar Kristoffersen, insegnante all’Accademia del Sistema Penitenziario norvegese, dove si occupa di formare le guardie carcerarie. Kristoffersen ha pubblicato uno studio che compara i tassi di recidiva nei paesi scandinavi: un sondaggio tra i detenuti rilasciati nel 2005 ha mostrato che in Norvegia il tasso di recidiva dopo due anni era del 20 per cento, il più basso della Scandinavia. Per dare un riferimento, una ricerca del 2014 realizzata negli Stati Uniti d’America ha stimato che circa il 68 per cento dei detenuti rilasciati nel 2005 sono stati arrestati per una nuova violazione entro tre anni.
Parlando di Halden, Kristoffersen si è detto disgustato dagli articoli della stampa anglosassone che descrivevano il carcere come un hotel di lusso, ma passando al tema dell’efficacia del “metodo Halden” nei confronti della recidiva si è dimostrato molto cauto, sostenendo che le statistiche non sono abbastanza affidabili per valutare le pratiche detentive in generale.
Da un sistema giudiziario all’altro, infatti, ci possono essere molte differenze nella gestione dei reati: ad esempio, il tipo di sentenze e la loro durata, il genere di crimine o quanto è facile che un soggetto sia rimesso in carcere per una violazione tecnica alla liberazione per buona condotta. A queste differenze, che rendono quasi impossibile comparare i sistemi penali, si aggiunge la diversa definizione di “recidiva” in ciascun paese: alcune nazioni considerano qualunque tipo di arresto come una nuova violazione, altre includono solo i casi che terminano in detenzione, mentre per altre ancora sono rilevanti anche le violazioni della liberazione per buona condotta. Quindi Benko ha provato a comparare le statistiche di Norvegia e USA utilizzando gli stessi criteri per entrambi i paesi e ha ottenuto un dato di recidiva sorprendentemente simile: 25 per cento in Norvegia, 28,8 per cento negli Stati Uniti d’America.
Ma per Kristoffersen è pressoché impossibile comparare l’efficacia dei programmi di reintegrazione, in particolare quella di Halden: le statistiche di recidiva norvegesi, infatti, sono divise in base alla prigione di rilascio; quasi nessun prigioniero, però, è liberato direttamente da un carcere di massima sicurezza, perciò non esistono dati di recidiva per Halden: «Bisogna fare attenzione perché c’è un tipo di errore logico che capita di frequente quando si parla di queste cose, ma non bisognerebbe mescolare due tipi di principi diversi. Uno è: Come si combatte il crimine? Come si riduce la recidiva? Mentre l’altro è: Quali sono i principi di umanità su cui si vuole basare il proprio sistema? Si tratta di due domande diverse». Riguardano tutta la comunità dei cittadini, ma di volta in volta quelli che sono detenuti oppure gli altri. Kristoffersen ha continuato dicendo: «A noi piace pensare che trattare i detenuti con gentilezza, con umanità contribuisca alla loro riabilitazione. Ma ci sono scarse prove scientifiche a sostenere che trattare le persone con gentilezza le dissuaderà dal commettere nuovi crimini. Molto scarse». Poi ha aggiunto «Però se tratti male le persone, questo si riflette anche su di te».
Kristoffersen ha raccontato a Benko che durante i corsi di formazione, alle guardie carcerarie viene spiegato che trattare i detenuti con umanità è qualcosa che dovrebbero fare non per i detenuti, ma per se stessi. Questa teoria si basa sull’idea che insegnare agli agenti penitenziari a essere duri, violenti e sospettosi avrà conseguenze sulla loro vita, sull’immagine che hanno di se stessi, sulle loro famiglie e persino sui sentimenti e atteggiamenti dell’intera Norvegia. Kristoffersen ha chiuso il suo discorso con una citazione in genere attribuita allo scrittore russo Fëdor Dostoevskij: “Il grado di civiltà di una società può essere valutato entrando in una delle sue prigioni”.
Benko scrive di aver sentito la stessa frase poco prima di lasciare il carcere, pronunciata dal direttore di Halden Are Hoidal: che si è detto orgoglioso che le persone vogliano lavorare nella prigione che gestisce e la giornalista conferma che tutti gli addetti di Halden che ha incontrato si sono dichiarati entusiasti di “fare la differenza”. «Rendono possibili dei grandi cambiamenti» ha detto Hoidal riferendosi ai dipendenti di Halden. E ha aggiunto: «Ho il miglior lavoro del mondo».
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Le foto sono tratte da una ricerca su Internet del carcere di Halden
Articolo integrale:
http://www.ilpost.it/2015/04/10/halden-carcere-piu-umano-mondo-funziona/