mercoledì 11 novembre 2015

L'ALBERO DEL PERO


Seguire di giorno in giorno il crescere lento e faticoso di un albero davanti alla finestra della cella è un modo diverso per provare a spiegare quanto può essere lunga una pena. L’alberello, assieme alle erbacce, è uno dei pochi esseri vegetali viventi che danno uno scorcio di natura in un ambiente fatto solo di ferro e cemento e offre uno spunto di riflessione sul passare monotono degli anni. Il racconto è una pagina significativa scritta sul carcere, proposta da Ornella Favero, Direttrice di “Ristretti Orizzonti”, il giornale dei detenuti del carcere di Padova.

 di Antonio Floris *


La finestra della mia cella, nella quale vivo da oltre tre anni, si affaccia su un campetto incolto in mezzo al quale si innalza, solitario tra le erbacce, un alberello di pero selvatico. Ormai sono tre primavere che lo osservo e mi sono accorto che ogni primavera questo albero allunga la sua cima di circa 30 centimetri. In pratica da quando lo sto osservando è cresciuto di quasi un metro. Parlando di quest’albero con un altro detenuto, sono venuto casualmente a sapere che era stato lui a piantarlo nel lontano 1995, ovvero 16 anni fa.
 
Nel 1995 si era voluto abbellire il nuovo carcere Due Palazzi (nuovo perché era in funzione solo da qualche anno) piantando in quegli spazi, non occupati da edifici, degli alberelli. Erano stati creati dei fossi, comprate delle piantine e messe a dimora in questi fossi. Dopo di che le piantine sono state abbandonate al loro destino, senza che nessuno si sia occupato mai né di potarle né di dare qualche colpo di zappa. In questo modo sono andate avanti nell’abbandono, più o meno come succede di questi tempi per i detenuti, solo che a differenza dei detenuti che vivono nella miseria e nella penuria di tutti i generi, gli alberi possono contare sulla generosità del cielo e sulla fertilità della terra, che è sicuramente una delle più pingui d’Italia.

Antonio Floris
Oltre al fatto che quest’alberello, assieme alle erbacce, è uno dei pochi esseri vegetali viventi che danno uno scorcio di natura in un ambiente fatto solo di ferro e cemento, esso dà uno spunto di riflessione sul passare monotono degli anni. Quando era stata messa a dimora la piantina era alta circa un metro. Ora ha un’altezza più o meno di 5 metri e per diventare così ci ha messo 16 anni.
Qui in carcere, durante gli incontri con gli studenti, di frequente si fanno discussioni sulla lunghezza delle pene e spesso succede che qualche studente, sentendo dire che tizio, accusato di omicidio, è stato condannato ad "appena" 15 o 20 anni, se ne esce dicendo che 15 anni o anche 20 sono pochi.

Per uno che guarda da fuori 15 o 20 anni potrebbero forse sembrare pochi, ma così pochi non sono per chi li deve effettivamente trascorrere dietro le sbarre. Allora per spiegare che non sono affatto pochi (soprattutto se trascorsi nell’ozio e nelle attuali condizioni di sovraffollamento) ognuno di noi cerca un paragone appropriato per dare un’idea di quanto lunghi possano essere. Chi si ingegna a cercare un paragone e chi un altro, ma fra tanti che se ne possono trovare questo dell’albero chiarisce il concetto in modo assai realistico.

Se qualcuno pensa che 16 anni sono pochi provi a immaginare che un bel giorno si metta a piantare un alberello davanti alla finestra di casa sua, poi che in quello stesso giorno cada vittima di qualche incantesimo o sortilegio a causa del quale deve stare chiuso in una casa senza poter uscire mai, fino a che l’albero, senza essere né concimato né curato da nessuno, arrivi all’altezza di 5 metri.

Per chi non avesse fatto mai quest’esperienza, possiamo assicurare che è molto fastidioso e irritante vedere con che estrema lentezza l’albero cresce. Fa quella breve esplosione di crescita di appena 30 centimetri in primavera, poi durante l’estate, l’autunno e peggio ancora l’inverno, non aumenta di un millimetro. E la cosa più fastidiosa ancora è stare a fissare l’albero per anni e anni facendo di questa abitudine l’occupazione principale, senza potersi dedicare ad altro che non sia guardare la televisione o leggere oppure scrivere, senza veder mai i frutti del proprio lavoro e senza concludere niente di valoroso né per se stesso né per gli altri.

Lo stare a guardare l’albero che cresce e sapere che quando raggiungerà una certa altezza uno avrà finito la pena, per quanto lunga essa possa essere, è comunque fonte di speranza. 

Non tutti i detenuti però possono coltivare questa speranza, in quanto per tanti di loro il fine pena non esiste. Fortunatamente io non sono di questi ultimi. Io so per quanto tempo ancora devo stare a guardare l’albero che cresce e già ho calcolato che altezza avrà raggiunto il giorno che lo dovrò salutare. Dietro l’albero c’è il muro della palestra e guardando dalla mia finestra, la cima dell’albero è più bassa di un metro del muro. Per poter uscire dovrò aspettare che sia più alta del muro di almeno due metri. Quest’inverno chiederò se me lo fanno potare, perché sfoltendolo dei rami inutili forse crescerà più in fretta.

* Antonio Floris, trovato ucciso a Padova, era detenuto nel carcere di quella città per scontare una pena di sedici anni per due tentati omicidi. Venerdì scorso, 6 novembre non era rientrato in carcere dopo il pomeriggio trascorso al centro Oasi (Opera Assistenza Scarcerati Italiani) dei padri Mercedari in via Righi, dove da anni lavorava la terra con altri detenuti ammessi al programma di reinserimento nella società e dove era molto considerato e benvoluto. Dopo cena, Floris avrebbe dovuto fare ritorno in carcere, in sella alla sua bicicletta. Negli anni '90, il 61enne, originario di Desulo, era ritenuto uno degli "emergenti" della criminalità sarda. L'uomo era già scappato dal carcere, nel gennaio del 1991, dalla colonia penale all'aperto di Mamone, dove stava scontando alcune condanne, tra le quali una per rapina in banca. Una latitanza che ebbe fine cinque anni dopo. Il 10 gennaio 1996 era stato trovato dalla Criminalpol, che lo intercettava da tempo. In quell'occasione, gli agenti fecero una scoperta sorprendente: i diari scritti in codice cifrato che l'uomo teneva nei tascapane, e nei quali aveva registrato le sue attività criminali.