Prima che fosse sostituito da apposite automobili furgonate, il carro funebre, seguito da parenti ed amici a piedi, era davvero un carro in legno, imponente, con cocchiere e cavalli. Il loro numero variava a seconda del livello del funerale, di prima, seconda o terza classe. Variava la spesa e naturalmente la sontuosità della carrozza e il numero dei cavalli. La carrozza di prima classe, scelta per prestigio e massima visibilità, era arricchita da colonnine, capitelli dorati e ganci per i cuscini di fiori. Aveva il cocchiere, con la livrea nera piena di bottoni dorati, e i cavalli, due o quattro, bardati con finimenti di lusso. Procedevano con andatura lenta e solenne e, nel silenzio della strada, si sentiva solo la preghiera del sacerdote e il tonfo e ritonfo degli zoccoli che risuonavano sul selciato.
Il corteo era preceduto dalla sfilata delle corone, fatte da rami di palma intrecciati ed arricchiti da inserti di fiori. La quantità di corone era proporzionale all’importanza del defunto o al cordoglio della comunità per la sua scomparsa. Erano portate a mano, una dietro l’altra, da amici e volontari.
A volte, per qualche funerale eccellente, partecipava anche la banda musicale, che si collocava in genere davanti al carro. I musicanti in divisa procedevano inquadrati, assorti nei loro pensieri. A un segno del capobanda approntavano gli strumenti e partivano struggenti marce funebri.
Anche la cerimonia religiosa non era eguale per tutti. Quella ordinaria era celebrata dal buon parroco del posto aiutato dal sacrestano. Messa veloce, parole di circostanza, un giro d’incenso e via verso il cimitero. Ma c’era anche la messa solenne, quella cantata. Almeno tre sacerdoti, i chierichetti con la tunica, una ricca omelia, l’incensiere col turibolo delle grandi occasioni, il coro, il suono soffocato dell’organo. Il misterioso viaggio per l’aldilà era sicuramente in classe unica ma per la cerimonia d’addio non c’era alcuna livella.
Il ritorno a casa, dopo il funerale, segnava il momento di pausa dopo le lunghe ore trascorse nella veglia e nel pathos della cerimonia. Bisognava prendersi cura dei familiari ancora immersi nel dolore ed incapaci di badare a se stessi. Con discrezione ed affetto si riportava un segno di vita nella casa dove era stata sospesa ogni attività domestica. Non era pensabile che un familiare potesse mettersi a cucinare scodellando stoviglie e tegami.
Era il momento del ‘consuolo’, operazione intima, riservata ai parenti più stretti, alle immancabili cummarelle, agli amici più cari. Un passaparola veloce, di casa in casa, e solo tra chi si era offerto di prepararlo, forzando a volte le resistenze e l’orgoglio degli stessi interessati. Arrivavano ceste di cibo preparato con amore e non mancava mai la zuppiera di brodo, alimento principe che alimentava senza lo sforzo di masticare e destinato a quelli cui si era “chiuso lo stomaco”.
La quantità di cibo portato doveva essere sempre superiore al numero delle persone interessate. Potevano esserci a casa parenti o amici venuti in visita da lontano e non li si poteva lasciare digiuni.
Il rito del ‘consuolo’ durava circa otto giorni, quelli del lutto stretto, del silenzio assoluto rotto solo dalle visite di condoglianze. Non si accendeva neppure la radio né, quando arrivò, la televisione. Il ‘consuolo’ aveva lo scopo di dare conforto alla famiglia facendola sentire al centro dell’attenzione. Spesso, però, era l’occasione per superare vecchi dissapori tra parenti o per ricostruire, tra famiglie vicine, rapporti di vicinato logori da anni.
Usi, costumi e tradizioni di un passato lontano quando la vita nella piccola comunità del paese significava condividere gioie e dolori. Oggi anche la morte è cambiata. I ricoveri ospedalieri precedono spesso gli ultimi giorni di vita e può capitare di sapere della morte di un vicino di casa solo dopo diverse ore dall’evento o a tumulazione avvenuta. Il lutto come evento triste ed ineluttabile della vita, vissuto nell’intimità e senza clamori.
E così diventa più vera l’amara saggezza di Totò: “…la morte è nu passaggio dal sonoro al muto. Quanno s’è stutata ‘a lampetella, significa che ll’opera è fernuta e ‘o primo attore s’è ghiuto a cuccà”.