domenica 19 luglio 2015

PAOLO BORSELLINO : L'ULTIMA LETTERA



Questa è l’ultima lettera di Paolo Borsellino, scritta alle 5 del mattino del 19 Luglio 1992, dodici ore prima che l’esplosione di un’auto carica di tritolo, alle 17 dello stesso giorno, davanti al n.19 di Via D’Amelio, facesse a pezzi lui e i ragazzi della sua scorta. La lettera rimase incompiuta sul numero 4), dopo gli altri tre punti nei quali Paolo, rispondendo a delle domande postegli dai ragazzi del liceo, ci da tra l’altro, in maniera estremamente semplice e chiara, come solo lui era in grado di fare, una definizione della mafia che bisognerebbe  che tutti conoscessero e che fosse insegnata nelle scuole.


 
Tratto da 19luglio1992.com
 

Dal sito 19luglio1992.com , curato da Salvatore Borsellino, traiamo l’ultima lettera del fratello Paolo, scritta qualche ora prima di morire, alle 5 di mattina. Nel pomeriggio la strage di via D’Amelio. Anche quella mattinata e quella lettera vengono corredate da un mistero, successivo alla telefonata che il giudice Borsellino riceve dal suo capo, Pietro Giammanco. Dopo quella telefonata Paolo non scrisse più niente sul foglio…

Paolo si alzava quasi sempre a quell’ora. Con quella sua ironia che riusciva a sdrammatizzare  anche la morte, la sua morte annunciata, diceva che lo faceva “per fregare il mondo con due ore di anticipo” e quella mattina cominciò a scrivere una lettera alla preside di un liceo di Padova presso il quale avrebbe dovuto recarsi a Gennaio per un incontro al quale non si era poi recato per una serie di disguidi e per i suoi impegni che non gli davano tregua. 


La faida di Palma di Montechiaro che Paolo cita nella lettera la ricordo bene.

A Capodanno dello stesso anno ero con lui ad Andalo, nel Trentino dove avevamo passato insieme il Natale, per la prima volta da quando, nel 1969, ero andato via dalla Sicilia, ed avevamo deciso di ritornare passando per Innsbruck che avevamo entrambi voglia di visitare insieme con le nostre famiglie.

Non fu possibile perchè Paolo ricevette la notizia della strage di mafia che c’era stata a Palma di Montechiaro e dovette rientrare di fretta in Sicilia.

Fu l’ultima volta che vidi Paolo, da allora fino alla strage del 19 luglio ci sentimmo solo qualche volta al telefono e quando, dopo la sua morte, vidi le sue foto successive alla morte di Giovanni Falcone mi sembrò che in poco più di sei mesi fosse invecchiato di 10 anni.
La lettera è da leggere parola per parola, pensando proprio che sono le ultime parole di Paolo.

Quando dice che non riusciva in quei giorni neanche a vedere i suoi figli penso a quello che mi disse mia madre dopo la sua morte: le aveva confidato che non faceva più le coccole a Fiammetta la sua figlia più piccola e che stava cercando di allontanarsi affettivamente dai suoi figli perchè soffrissero di meno nel momento in cui lo avrebbero ucciso.

E che quel giorno lo avrebbero ucciso Paolo lo doveva quasi presagire, sapeva che a Palemo era già arrivato il carico di tritolo per lui. Lo sapeva anche il suo capo, Pietro Giammanco, che non gli aveva però riferito dell’informativa che gli era arrivato a questo proposito e Paolo, che invece lo aveva saputo per caso all’aeroporto dal ministro Scotti, aveva avuto con lui uno scontro violento.



Uno scontro che Paolo ebbe con Giammanco anche la mattina del 19 Luglio, quando quest’ultimo gli telefonò alle 7 del mattino, cosa che fino allora non era mai successa.



Forse anche Giammanco sapeva che quello era l’ultimo giorno di Paolo e per questo gli comunicò che gli aveva finalmente concessa la delega per indagare sui processi di mafia in corso di istruttoria a Palermo. Delega che avrebbe permesso a Paolo di interrogare senza più vincoli il pentito Gaspare Mutolo che in quei giorni aveva cominciato a rivelare le collusioni tra criminalità organizzata, magistratura, forze dell’ordine e servizi segreti.



Racconta la moglie di Paolo che Giammanco gli disse: “Ora la partita è chiusa” e Paolo gli rispose invece urlando “No, la partita comincia adesso”.



Dopo quella telefonata Paolo non scrisse più niente sul foglio e la lettera rimase incompiuta sul numero 4), dopo gli altri tre punti nei quali Paolo, rispondendo a delle domande postegli dai ragazzi del liceo, ci da tra l’altro, in maniera estremamente semplice e chiara, come solo lui era in grado di fare, una definizione della mafia che bisognerebbe  che tutti conoscessero e che fosse insegnata nelle scuole.

Dieci ore dopo un telecomando azionato da una stanza di un centro dei Servizi Segreti Civili, il SISDE, ubicato sul castello Utveggio, poneva fine alla vita di Paolo ma non riusciva ad ucciderlo, oggi Paolo è più vivo che mai, è vivo dentro ciascuno di noi e il suo sogno non morirà mai.


L’ULTIMA LETTERA DI PAOLO BORSELLINO


“Gentilissima” Professoressa,

uso le virgolette perchè le ha usato lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa e “pentito” mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del suo liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio.

Intanto vorrei assicurarla che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala) non foss’altro perchè a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Trib. di Palermo, ove poi da pochi giorni mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto.

Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/***963, utenza alla quale rispondo direttamente.

Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro.

Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affliggevano. Mi preanunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno.

Il 24 gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stato “comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non ebbi proprio il tempo di dolermene perchè i miei impegni sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.

Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati..

Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perchè frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perchè dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati. 

Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande.

1) Sono diventato giudice perchè nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.

Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma otteni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle dispute legali, delle divisioni erediatarie etc.

Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovani Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro.

Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.

Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressocchè esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perchè vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.

2) La DIA è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.

La DNA invece è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali.

Sino ad ora questi organi hano agito in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dall’altro (indipendenza ed autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.

3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di “territorialità”. Essa e suddivisa in “famiglie”, collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, leggittimamente, lo Stato.

Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato.

E’ naturalmente una fornitura apparente perchè a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l’imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri (molti).

La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione. 

Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perchè venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale.

Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, “ndrangheta”, Sacra Corona Unita etc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra, ma non hanno l’organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del “consenso” di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.

4) 


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La lettera rimase imcompiuta al numero 4