Questa è l’ultima
lettera di Paolo Borsellino, scritta alle 5 del mattino del 19 Luglio 1992, dodici
ore prima che l’esplosione di un’auto carica di tritolo, alle 17 dello stesso
giorno, davanti al n.19 di Via D’Amelio, facesse a pezzi lui e i ragazzi della
sua scorta. La lettera rimase incompiuta sul numero 4), dopo gli altri tre
punti nei quali Paolo, rispondendo a delle domande postegli dai ragazzi del
liceo, ci da tra l’altro, in maniera estremamente semplice e chiara, come
solo lui era in grado di fare, una definizione della mafia che
bisognerebbe che tutti conoscessero e che fosse insegnata nelle scuole.
Tratto da 19luglio1992.com
Dal sito 19luglio1992.com , curato da
Salvatore Borsellino, traiamo l’ultima lettera del fratello Paolo, scritta
qualche ora prima di morire, alle 5 di mattina. Nel pomeriggio la strage di via
D’Amelio. Anche quella mattinata e quella lettera vengono corredate da un
mistero, successivo alla telefonata che il giudice Borsellino riceve dal suo
capo, Pietro Giammanco. Dopo quella telefonata Paolo non scrisse più niente sul
foglio…
Paolo si alzava
quasi sempre a quell’ora. Con quella sua ironia che riusciva a
sdrammatizzare anche la morte, la sua morte annunciata, diceva che lo
faceva “per fregare il mondo con due ore di anticipo” e quella mattina cominciò
a scrivere una lettera alla preside di un liceo di Padova presso il quale
avrebbe dovuto recarsi a Gennaio per un incontro al quale non si era poi recato
per una serie di disguidi e per i suoi impegni che non gli davano tregua.
La faida di Palma di
Montechiaro che Paolo cita nella lettera la ricordo bene.
A Capodanno dello
stesso anno ero con lui ad Andalo, nel Trentino dove avevamo passato
insieme il Natale, per la prima volta da quando, nel 1969, ero andato via dalla
Sicilia, ed avevamo deciso di ritornare passando per Innsbruck che avevamo
entrambi voglia di visitare insieme con le nostre famiglie.
Non fu possibile
perchè Paolo ricevette la notizia della strage di mafia che c’era stata a Palma
di Montechiaro e dovette rientrare di fretta in Sicilia.
Fu l’ultima volta
che vidi Paolo, da allora fino alla strage del 19 luglio ci sentimmo solo
qualche volta al telefono e quando, dopo la sua morte, vidi le sue foto
successive alla morte di Giovanni Falcone mi sembrò che in poco più di sei mesi
fosse invecchiato di 10 anni.
La lettera è da leggere parola per parola, pensando proprio che sono le ultime parole di Paolo.
La lettera è da leggere parola per parola, pensando proprio che sono le ultime parole di Paolo.
Quando dice che non
riusciva in quei giorni neanche a vedere i suoi figli penso a quello che mi
disse mia madre dopo la sua morte: le aveva confidato che non faceva più le
coccole a Fiammetta la sua figlia più piccola e che stava cercando di
allontanarsi affettivamente dai suoi figli perchè soffrissero di meno nel
momento in cui lo avrebbero ucciso.
E che quel giorno lo
avrebbero ucciso Paolo lo doveva quasi presagire, sapeva che a Palemo era già
arrivato il carico di tritolo per lui. Lo sapeva anche il suo capo, Pietro
Giammanco, che non gli aveva però riferito dell’informativa che gli era
arrivato a questo proposito e Paolo, che invece lo aveva saputo per caso
all’aeroporto dal ministro Scotti, aveva avuto con lui uno scontro
violento.
Uno scontro che
Paolo ebbe con Giammanco anche la mattina del 19 Luglio, quando quest’ultimo
gli telefonò alle 7 del mattino, cosa che fino allora non era mai successa.
Forse anche
Giammanco sapeva che quello era l’ultimo giorno di Paolo e per questo gli
comunicò che gli aveva finalmente concessa la delega per indagare sui processi
di mafia in corso di istruttoria a Palermo. Delega che avrebbe
permesso a Paolo di interrogare senza più vincoli il pentito Gaspare
Mutolo che in quei giorni aveva cominciato a rivelare le collusioni tra
criminalità organizzata, magistratura, forze dell’ordine e servizi segreti.
Racconta la moglie
di Paolo che Giammanco gli disse: “Ora la partita è chiusa” e Paolo gli rispose
invece urlando “No, la partita comincia adesso”.
Dopo quella
telefonata Paolo non scrisse più niente sul foglio e la lettera rimase
incompiuta sul numero 4), dopo gli altri tre punti nei quali Paolo, rispondendo
a delle domande postegli dai ragazzi del liceo, ci da tra l’altro, in
maniera estremamente semplice e chiara, come solo lui era in grado di fare, una
definizione della mafia che bisognerebbe che tutti conoscessero e che
fosse insegnata nelle scuole.
Dieci ore dopo un
telecomando azionato da una stanza di un centro dei Servizi Segreti Civili, il
SISDE, ubicato sul castello Utveggio, poneva fine alla vita di Paolo ma non
riusciva ad ucciderlo, oggi Paolo è più vivo che mai, è vivo dentro ciascuno di
noi e il suo sogno non morirà mai.
L’ULTIMA LETTERA DI PAOLO BORSELLINO
“Gentilissima” Professoressa,
uso le virgolette
perchè le ha usato lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa e
“pentito” mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli
studenti del suo liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24
gennaio.
Intanto vorrei assicurarla
che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico
(suppongo quello della Procura di Marsala) non foss’altro perchè a quell’epoca
ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della
Repubblica presso il Trib. di Palermo, ove poi da pochi giorni mi sono
definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto.
Se le sue telefonate
sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato.
Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/***963,
utenza alla quale rispondo direttamente.
Se ben ricordo,
inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa
settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini
conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro.
Ricordo sicuramente
che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della
vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di
massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi
affliggevano. Mi preanunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale
mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno.
Il 24 gennaio poi,
essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla
radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per
rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stato “comunque”
preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non ebbi proprio
il tempo di dolermene perchè i miei impegni sono tanti e così incalzanti che
raramente ci si può occupare di altro.
Spero che la
prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non
affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati..
Oggi non è certo il
giorno più adatto per risponderle perchè frattanto la mia città si è di nuovo
barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli,
che vedo raramente perchè dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi
sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati.
Ma è la prima
domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho
difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande.
1) Sono diventato giudice
perchè nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in
magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche
giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La
magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al
mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera
universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.
Fui fortunato e
divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai
soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che
nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero
approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma otteni l’applicazione, anche
se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle
problematiche dei diritti reali, delle dispute legali, delle divisioni
erediatarie etc.
Il 4 maggio 1980
uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi
io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio
frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di
infanzia Giovani Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere
un altro.
Avevo scelto di
rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi
erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo
questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.
Non ho più lasciato
questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressocchè esclusivamente di
criminalità mafiosa. E sono ottimista perchè vedo che verso di essa i giovani,
siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole
indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni. Quando questi giovani saranno
adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne
abbiamo avuta.
2) La DIA è
un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia
di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di
realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad
ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un
reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei
compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.
La DNA invece
è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una
circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero
distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali.
Sino ad ora questi
organi hano agito in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dall’altro
(indipendenza ed autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del
Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella
maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali
degli altri organi anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura
sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire
tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in
cui se ne ravvisi la necessità.
3) La mafia (Cosa
Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente
strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di
“territorialità”. Essa e suddivisa in “famiglie”, collegate tra loro per la
comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare
sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare,
leggittimamente, lo Stato.
Ciò comporta che
Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o
affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti
(paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli
appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti
rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che
dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato.
E’ naturalmente una
fornitura apparente perchè a somma algebrica zero, nel senso che ogni
esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente
ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità
(storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l’imposizione di
altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a
taluni (pochi) togliendolo ad altri (molti).
La produzione ed il
commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici
prima impensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari
alla sua perpetuazione.
Il conflitto
inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza
(hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto
condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi
pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perchè venga
indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di
tutta la comunità sociale.
Alle altre
organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, “ndrangheta”, Sacra
Corona Unita etc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed
esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse
caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra, ma non hanno
l’organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore
del “consenso” di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione
alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a
confondersi.
4)
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La lettera rimase imcompiuta al numero 4
La lettera rimase imcompiuta al numero 4