Vallanzasca appena arrestato, nel 1977 |
Aldo Maturo
(ex) Direttore Supercarcere di Fossombrone
Che potesse arrivare Vallanzasca lo avevo immaginato quando lo avevo visto in TV nella famosa intervista del 15 febbraio 1977, sul balconcino subito dopo l’arresto da parte dei carabinieri. Qualche giorno prima c’era stato il conflitto a fuoco con la Polizia Stradale di Dalmine. Per lui una ferita al fianco, per i due poliziotti la vita stroncata sull’asfalto.
Che potesse arrivare Vallanzasca lo avevo immaginato quando lo avevo visto in TV nella famosa intervista del 15 febbraio 1977, sul balconcino subito dopo l’arresto da parte dei carabinieri. Qualche giorno prima c’era stato il conflitto a fuoco con la Polizia Stradale di Dalmine. Per lui una ferita al fianco, per i due poliziotti la vita stroncata sull’asfalto.
Aveva 27 anni Vallanzasca ed era già accusato di diversi omicidi e sequestri di
persona. I giornali scrivevano in quei giorni che era un bandito sanguinario
che aveva trasferito nelle dinamiche criminali degli anni ’70 le
caratteristiche del filone gangsteristico americano. Pensai che lo mandassero a
Fossombrone perché avevo anche il Centro Clinico, allora tra i più accreditati
d’Italia, unico per i detenuti dei cinque istituti di massima sicurezza. Tre
piani, una sala operatoria attrezzatissima, un’equipe chirurgica esterna di
alto livello, poliambulatori anche di fisioterapia, assistenza medica e
parasanitaria 24 ore su 24.
Cercai di
immaginare, al fine di prevenire alleanze o disordini, come avrebbe potuto
interagire con gli altri detenuti “politici” e “comuni”, ma il variegato
livello di pericolosità fra quelle mura era talmente elevato che mi restava
poco spazio di manovra, se non confidare sull’intuito, sulla fortuna e sulla
professionalità del personale.
La cella per lui non avrebbe avuto nulla di particolare, singola, piano terra,
letto, tavolino, armadietto e finestra con le sbarre sul cortile interno. Pochi
metri più in là c’era quella di Luciano Liggio, di Graziano Mesina, di tanti
altri nomi famosi della criminalità organizzata, dei capi storici delle Br,
NAP, Prima Linea oltre a quelli del peggiore sottobosco carcerario fatto di
accoltellamenti ed omicidi in carcere.
C’è stato per anni il più alto concentrato di uomini a rischio evasione nello
storico istituto di Fossombrone, scelto da Dalla Chiesa come una delle cinque
fortezze destinate a contenere i maggiori protagonisti della cronaca nera di quei
terribili anni e tante volte mi chiedevo perché dall’altra parte delle sbarre
avesse messo me. Forse perché rappresentavo l’altra faccia dello Stato, quella
legalitaria, come riconoscevano anche i terroristi e come gli eventi di quei terribili
anni confermarono.
E
la traduzione arrivò, con l’abituale copione di quel tempo. L’elicottero che
aveva protetto dall’alto tutto il percorso delle auto di scorta, lo stridio delle gomme, i
carabinieri e gli agenti tutt’intorno col mitra spianato e gli occhi puntati su
qualunque cosa si muovesse fuori scena. Lo aiutarono a scendere e lo fece senza
mostrare sofferenza, appoggiandosi alle stampelle e dolorante per la ferita.
Quando entrò nel portone, l’elicottero dei carabinieri s'impennò e virò verso l’alto. Si
allontanò alzando polvere e foglie. Ormai il problema della sicurezza non era
più suo e la palla era passata a noi.
Per
circa due anni Fossombrone è stata la sua sede detentiva, intervallata da
numerose assenze per partecipare ai vari processi in giro per l’Italia. Ne
aveva tanti e si disse che molti li accettava anche se non c’entrava niente
perché andare era comunque un diversivo e poi poteva essere l’occasione buona
per evadere.
La
permanenza non passò inosservata sulla stampa che partorì decine di articoli
sulle sue giornate e sulle cartoline ricevute da centinaia di ragazzine. La sua
vita all’interno scivolò in un’ordinaria routine e nelle cure mediche per
l’intervento subìto dopo il conflitto a fuoco, cure ben riuscite se dopo alcuni
mesi riusciva a correre dietro ad un pallone ed a superare per primo i cavalli
di frisia messi in una sola notte per dividere,
dietro la chiesa, i due cortili di passeggio, un tempo comunicanti. Soggetto dalla forte personalità, abituato a vivere fuori
dalle regole e dagli schemi, sopportava con disinvoltura lo stato di detenzione
senza nutrire particolari ambizioni gerarchiche o carismatiche, anche perché in
quell’istituto le aspirazioni degli uni erano ben compensate dalla lunghezza e
dalla gravità dei reati degli altri, (le c.d.posizioni giuridiche)
elencati nei fascicoli personali non a pagine ma a rotoli di carta.
Nel
luglio del 1979, durante un periodo di permanenza a Roma Rebibbia dove era
andato per motivi processuali, si sposò con la signora Giuliana Brusa.
Testimone di nozze, per lui, era stato Francis Turatello, che con Albert
Bergamelli era stato capo della banda dei marsigliesi, una delle bande più
famose degli anni ’70. Il “comparaggio” destò sorpresa perché i loro uomini,
fino a qualche tempo prima, si erano scontrati nelle piazze di Milano lasciando
sul selciato morti e feriti. Dietro quella "pace" gli inquirenti sospettarono
nuove alleanze.
Il
matrimonio, se da una parte lo aveva reso felice ed ottimista, dall’altra lo
aveva reso ancora più intollerante alla regolamentazione dei colloqui, una
procedura che non aveva mai accettato perché si svolgevano in sale divise da
vetri antiproiettili. Ci si parlava con i citofoni, primo esperimento in
Italia, e la novità non era stata “gradita” tanto che al termine della
giornata di colloqui i detenuti, terroristi e non, puntualmente li spaccavano,
costringendoci ad una immediata sostituzione. Ma la rigidità su questo punto
era tassativa negli istituti di massima sicurezza, Roma non ammetteva eccezioni
e noi direttori non avevamo alcuna facoltà di derogare alla direttiva di
autorizzare solo quattro colloqui mensili. Si svolgevano in questa sala
munita di vetro antiproiettile fino al soffitto che separava i detenuti dai
familiari, mutuata dal sistema penitenziario anglosassone.
La
regolamentazione fu poi attenuata non solo grazie alle loro proteste ma anche per
l’intervento della stampa e di noi Direttori che avevamo unanimemente chiesto a
Roma la possibilità di poter concedere almeno due colloqui in sala senza
vetro se il detenuto avesse avuto una condotta regolare. Furono concessi
anche a lui ma un mese non li ritenne sufficienti, ne chiese altri extra che
non gli furono autorizzati anche per non creare favoritismi a danno di altri
detenuti.
Il diniego lo fece
esplodere in un incontrollato gesto di protesta che ne determinò l’immediato
trasferimento ad altra sede.
Il lungo viaggio di Vallanzasca nei penitenziari italiani lo vedrà protagonista
di tanti altri episodi, da evasioni tentate o riuscite a imputazioni per crudeli
esecuzioni. Negli ultimi tempi il nome è tornato sulla scena per il film di
Michele Placido e per l’attenzione esagerata della stampa, sempre pronta a
gonfiare tutto quello che fa notizia. E’ difficile pensare che i tentativi di
reinserimento fatti da lui e dagli operatori che lo seguono possano passare
inosservati ed andare silenziosamente a buon fine, senza che ci sia sempre qualcuno
pronto a riaccendere ogni volta i riflettori per ricordare il passato, anche se
tutto è ormai storia.