Aldo Maturo
Li si andava a cercare nel ripostiglio agli inizi di ottobre, quando le prime nebbie cominciavano ad ovattare il paese e la luce debole dell’inverno sfumava sul viale già ricoperto dalle foglie gialle dei platani. Si spostavano scatoloni, borsoni e legni accatastati per estrarli da quel disordine e rimetterli in uso, dopo averli spolverati e liberati dai ricami di qualche ragnatela. Solo a rivederli si pregustava già il tepore che avrebbero regalato durante le serate invernali.
Li si andava a cercare nel ripostiglio agli inizi di ottobre, quando le prime nebbie cominciavano ad ovattare il paese e la luce debole dell’inverno sfumava sul viale già ricoperto dalle foglie gialle dei platani. Si spostavano scatoloni, borsoni e legni accatastati per estrarli da quel disordine e rimetterli in uso, dopo averli spolverati e liberati dai ricami di qualche ragnatela. Solo a rivederli si pregustava già il tepore che avrebbero regalato durante le serate invernali.
Portati
nel soggiorno, gli si faceva posto, quasi fossero ospiti d’onore, spostando
sedie e tavolo per dare a loro lo spazio necessario.
Per prima si sistemava la base, una pedana circolare in legno a forma di ciambella, alta un palmo da terra, con il foro centrale dove si infilava il braciere. Con gli anni il legno di abete ingrigito testimoniava tutt’intorno l’impronta delle scarpe che avevano consumato più i bordi che la parte centrale. C’era il braciere bello, di rame ed ottone lucido, con i risvolti e i manici intarsiati, e quello di ferro, annerito e cotto dal fuoco. Sulla pedana, a protezione del braciere, si appoggiava l’asciugapanni a forma di cupola in legno o in giunco. A casa mia era in ferro, come una gabbia cilindrica a due facciate piane. Quella inferiore era aperta e copriva il braciere, mentre da quella superiore s’ irradiavano a stella i listelli di ferro che poi scendevano lungo i lati e, incrociando quelli orizzontali concentrici, formavano una griglia a maglie larghe.
Quel tipo di asciugapanni
aveva una doppia funzione. Al mattino poteva essere ricoperto da
mutandine, fazzoletti ed altri panni appena lavati, messi lì ad asciugare al
calore del braciere, con i calzini infilati nei vari riquadri. Nel pomeriggio,
tolti i panni, si stendeva sopra una bella coperta di lana che cadeva giù fino
a sfiorare la pedana. Quando la famiglia era tutta in casa, e non si
sceglieva il camino della cucina come punto di raccolta, si stava seduti
intorno al braciere, con i piedi appoggiati sulla pedana e la coperta
poggiate sulle gambe. Più era grande e lambiva la base di legno più
contribuiva a non disperdere il dolce tepore. Nelle giornate più fredde,
rientrati a casa, si andava a cercare il braciere e si infilavano le mani
sotto la coperta per riscaldarsi prima.
Il compito di
ravvivare la brace con la paletta di ferro non era un compito da bambini.
Si alzava un lembo della coperta, si chinava la testa di lato per
guardare meglio e si nterveniva con delicatezza, accostando a poco a poco
la carbonella esterna, ancora spenta, a quella centrale, rossa di fuoco. Se si
mescolava alla rinfusa, la carbonella nuova e la cenere soffocavano la
brace e bisognava riattizzarla con il ventaglio, di cartone o di penne di
gallina. Lo si oscillava a mezz’altezza, senza guardare, con un movimento
del polso lento e continuo per evitare di sollevare cenere e scintille.
Le ore passavano
così, nei lunghi inverni di quegli anni, quando in casa non c’erano i
termosifoni e della Tv si fantasticava l’esistenza perché qualcuno l’aveva
vista nei negozi delle grandi città o in qualche film americano. Tutta la
famiglia era raccolta vicino a questo simbolo, principale fonte di calore della
casa e nessuno, salvo assoluta urgenza, si azzardava ad andare nelle altre
camere senza essersi prima ben coperto. Si rammentava, si leggeva
il giornale, si parlava, si facevano solitari o lunghi pisolini con la testa
poggiata su quel ripiano intiepidito. Io partecipavo al rito solo la sera
perché, dopo aver giocato, me ne stavo in camera a studiare, una copertina
sulle ginocchia e una piccola stufetta elettrica sotto al tavolino. Era a due
spirali ma quando le accendevo tutte e due puntualmente saltava la luce.
Non esistevano i salvavita e mio padre ogni volta, a lume di candela,
doveva scendere fino al portone dove, borbottando, sostituiva
i fusibili nelle valvole di ceramica bianca poste sotto al contatore.
Si chiamavano valvole a tabacchiera e per me era magico che il
ripristino di un filino facesse tornare la luce.
Il suono del
campanello per l’improvviso arrivo di parenti o amici “a lunga permanenza”
rimetteva in gioco le posizioni acquisite intorno al braciere e l’inserimento
di altre sedie rompeva tutti gli equilibri. La coperta, suddivisa anche tra
gambe a lei non familiari, sembrava sempre più corta e ogni tanto gli si dava
una tiratina per coprire una coscia rimasta scoperta e più infreddolita.
Il massimo della
felicità era cenare intorno al braciere. La tavola per fare la pasta in casa
era circolare e così la si poggiava sull’asciugapanni che diventava la
base su cui mettere la tovaglia, i piatti e i bicchieri mentre, data
l’instabilità del telaio, le bottiglie ed altre pietanze si poggiavano
sul tavolo da pranzo rimasto inutilizzato. Cenette semplici ed indimenticabili,
con amici o con parenti, che finivano quasi sempre a scopa o scopone, al sapore
di Strega o di Anice.
Il braciere al
termine della serata non finiva la sua missione. Poco prima di andare a
letto si spostava la brace rimasta nello scaldino, simile a un tegame
bombato, e partiva l’operazione “prete”.
Il “prete” era uno
strano oggetto di legno che ricordava un po’ lo slittino e serviva per
riscaldare il letto e stemperare le lenzuola. Era formato da quattro
assicelle di legno, due superiori e due inferiori, inarcate e convergenti.
Nella base, rivestita di lamierino, si poggiava lo scaldino con la carbonella
ancora calda. Si sollevavano le lenzuola e le coperte, si infilava nel letto il
“prete” con dentro lo scaldino, e si riappoggiavano il tutto su questo
fantasioso telaio. Dopo un pò si risollevavano le coperte piano piano per
non disperdere il calore, si sfilava il prete e il beneficiato si rannicchiava
fra le lenzuola intiepidite, gustando il tepore di quel calore ben
diverso dal gelo della stanza. Sul cuscino restavano fuori
solo i capelli.
Il “prete”. Pare che
si chiamasse così perché, con maligna allusione, era quella cosa che riscaldava
il letto per il “tempo necessario” ma senza restarci a “dormire”.
Serate
d’inverno di un passato lontano, fatte di un sano e naturale tepore, di odore
di carbone acceso, di geloni, di castagne sotto la cenere, di persone
raccolte davanti a un braciere o a un camino, unite dal calore del fuoco
nel segno della famiglia.
(da "Fotogrammi
di memoria", Aldo Maturo, Ed.Nous, 2013)