Vincenzo Latronico – La Repubblica – 23.9.2013
È domenica pomeriggio e sto per andare a seguire i risultati dello spoglio elettorale alla sezione del mio quartiere di un partito di sinistra. È una cosa che non ho mai fatto, prima d'ora; ma stavolta, per varie ragioni, ho la sensazione che queste elezioni possano essere realmente determinanti per il futuro del mio Paese. Eppure non ho votato. Questi due fatti non sono in contraddizione: il mio paese è l'Italia - ma quello in cui abito, e in cui si svolgono queste elezioni per certi versi cruciali per noi che pure non vi partecipiamo, è la Germania. Con qualche pausa e qualche ritorno, sono quattro anni che vivo a Berlino.
È
difficile ammettere di fare parte di una tendenza - in senso sia sociologico
che modaiolo. I tuoi motivi ti sembrano sempre più validi, o più personali, o
più complessi di quelli degli altri, che fanno la tua stessa scelta sentendosi
speciali come te. Eppure il trasferimento a Berlino è sempre più popolare fra
gli italiani della mia età, benché la questione, come molte tendenze simili,
sia in qualche misura sovraesposta. Ufficialmente siamo in ventimila; le stime
di chi è qui senza registrarsi all'anagrafe raddoppiano questa cifra. Il totale
raggiunge più o meno la capacità dello stadio olimpico di Roma, o un quinto
della città di Bologna, per farsi un'idea.
L'espressione «fuga dei cervelli», oltre a essere orribile, spiega tutto
questo solo in minima parte. Si riferisce a chi cerca strade adatte ai suoi
talenti, opportunità estremamente qualificate che nel nostro Paese mancano.
Conosco gente che è qui per questo: Irene è ricercatrice alla
Humboldt-Universität a un'età a cui in Italia ci si trascina nel purgatorio del
post-doc; Stefania e Gigiotto, in pochi anni, hanno trasformato quello che a
Napoli era un piccolo spazio d'arte indipendente in una galleria solida e molto
riconosciuta. Ma sono relativamente pochi i casi di chi parte con un seme in
mano sapendo di trovare una terra fertile. Gli italiani che incontro qui sono
in larga parte gli studenti Erasmus che nell'estasi dell'alba dopo la festa
decidono di restare; i neolaureati che preferiscono affrontare il giro di
chiglia dello stage in un posto in cui è probabile che porti a qualcosa; quelli
che vogliono aprire un bar o un ristorante in un'economia in crescita e in un
sistema meno rapace e bizantino. E poi c'è la cosiddetta diaspora digitale, di
cui faccio parte anche io: la categoria in rapida crescita dei freelance a cui
basta un computer per lavorare, che finiscono qui senza sapere bene cosa stanno
cercando ma con la sensazione generica, dubbiosa, che a casa non c'è.
È un complesso di ragioni che porta tutte queste persone (tutti noi) a
Berlino, in questo momento specifico. Una di esse è indubbiamente il fatto che
siamo in tanti a farlo, il che c'entra con il conformismo ma anche con la
consapevolezza che troverai tutta una comunità ad accoglierti e aiutarti in un
passo che - per quanto smussato dall'unità d'Europa - è comunque doloroso e
difficile. (Anche dal punto di vista pratico: anni fa mi mandarono su Facebook
i numeri di tre medici che praticavano qui parlando italiano; ora aprono
commercialisti e studi di psicanalisi.) Ma credo che la ragione principale sia
legata a ciò che l'economista Charles Tiebout chiamava «votare coi piedi»:
esprimere la propria opinione circa un sistema politico limitandosi ad
abbandonarlo, in favore di uno ritenuto migliore. In fondo, oggi il mio voto
l'ho espresso così. È in parte una mossa vigliacca e rinunciataria, e forse è
anche per questo che, dopo un po' che si è via, si comincia a faticare a
seguire l'attualità politica italiana: c'entra la rabbia che questa suscita in
chiunque vi partecipi, ma anche la vergogna di chi sente, col sollievo
dell'egoista, il peso di essersene lavato le mani. A Berlino c'è il sussidio, e
il «bonus-bebé» è uno stipendio di un anno, e gli affitti seppur in crescita
sono calmierati; in Italia, almeno visto da qui, c'è quel cruciverba
indecifrabile costellato di affetti e frustrazioni, di speranze e di strade
sbarrate, che è l'Italia. Ha fatto meno venti il primo inverno che sono stato
qui, e Christina guardando il mezzo metro di neve in terrazza pensava a casa
sua a Baden-Baden, quattro paralleli più a sud. Era appena stata a Firenze, e
non capiva come fosse possibile che un italiano volesse davvero vivere in un posto
così. Me lo chiedevano in molti, all'inizio. Ora non lo chiedono più.
