mercoledì 14 febbraio 2018

RINKEBY, L'INFERNO DELLA SVEZIA


Rinkeby è un sobborgo residenziale di Stoccolma chiamato la “piccola Mogadiscio”. Il 90,7% dei 16.000 abitanti è di origine straniera.  Il tasso di criminalità è altissimo. Nel 2014, le autorità svedesi, dopo una serie di nuovi attacchi, hanno deciso di chiudere l’avamposto di polizia del quartiere e di pianificarne la riapertura nel 2019, ammettendo implicitamente di non essere in grado di presidiare quel territorio, la cui giurisdizione appartiene a bande armati di migranti che scorazzano per le strade. Sono le bande a stabilire chi può entrare e chi no a Rinkeby. E’ incredibile che tutto ciò accada nella Svezia del ventunesimo secolo, una terra idolatrata per i suoi ideali oltremodo avanzati.

 
3 marzo 2017

Non sono giunta in Svezia per seguire i disordini, o a seguito delle dichiarazioni di Trump: in effetti, dovevo essere qui ancora a dicembre, prima che gli scioperi degli aeroporti me lo impedissero.
Sono venuta qui perché mi è stato chiesto. Più volte.
Le donne svedesi mi hanno scritto sulla mail, o via lettera, per mostrarmi come è cambiato il loro paese; padri mi hanno scritto di essere preoccupati per le loro figlie, twittandomi che la Svezia non è affatto il paese che tutti immaginano, e che le ragazze hanno paura ad uscire la sera.


 Un immigrato dodicenne è stato stuprato in un centro di accoglienza da altri presunti migranti “minori non accompagnati”, che si è poi scoperto avere tra i 20 e i 45 anni.  Questo ed altri casi simili sono stati rapidamente occultati.
Quando Trump ha portato l’attenzione del mondo sulla Svezia, parlando in modo piuttosto maldestro degli effetti che l’immigrazione ha avuto su quello che è visto come il paese più liberal del mondo, il paese era pronto ad esplodere. Quello che Trump ha fatto è stato accendere la miccia e innescare la reazione di migliaia di giovani migranti provenienti da teatri di guerra e pronti a combattere.
Cavalcando questa inaspettata pubblicità, hanno protestato, saccheggiato e bruciato macchine nel quartiere Rinkeby, noto come la “Piccola Mogadiscio”.
Mentre la sinistra ha catalogato le accuse di Trump come “notizie false”, la destra ha evidenziato il caos di un quartiere dove il 90% dei residenti è straniero. Sono state diffuse le statistiche sugli stupri a Stoccolma, e interpretate in diversi modi: chi vede la città svedese come la “capitale degli stupri d’Europa“, e chi dice che invece l’aumento di questi è una semplice anomalia statistica e, guardando bene il grafico, gli stupri sono anzi diminuiti nel corso degli anni; ma, in un mondo di notizie polarizzate, ci sono ancora molte verità da svelare.
 Una giovane ragazza di 27 anni -chiamiamola Lucy- oggi ha paura ad uscire di casa da sola. Lei vive vicino a un grosso centro commerciale che attira molti migranti provenienti dai quartieri pericolosi, e minacciano il suo percorso da casa a lavoro. Sotto il ponte vicino al suo appartamento stazionano bande di uomini, giorno e notte. Lucy gira sempre con uno spray al peperoncino in tasca e conosce a memoria tutti i casi di stupro avvenuti di recente; me li cita uno per uno e teme che la prossima vittima sarà lei.
Dei ladri le sono entrati in casa la settimana scorsa, portandole via il computer, le chiavi della macchina, e infine la macchina. La polizia le ha detto che è troppo impegnata per aiutarla.
Lucy non vuole far vedere le proprie fotografie, non perché teme un assalto da parte degli immigrati, ma da parte delle femministe, che già l’hanno accusata di essere razzista. Gli immigrati la spaventano, ma sono state le donne svedesi a metterla a tacere.
Le ho viste in azione quando è stata trovata una bomba a mano in un cestino fuori da una stazione di polizia, in uno dei quartieri più pericolosi. Ho chiesto alla polizia chi fosse il bersaglio, e mi hanno detto che non lo sapevano. Ho chiesto al capo della moschea; lui ritiene il bersaglio fosse la polizia. Dopodiché, due donne mi hanno fermata dicendomi di non tirare in mezzo la moschea, di non mostrare la cosa come se avesse a che fare con gli islamici. Era una cosa che riguardava la polizia – non gli immigrati. Mi chiedo se si siano rese conto della situazione: una bomba in un cestino. Dodici ore dopo il mio atterraggio in Svezia, un centro di accoglienza è andato a fuoco, si sospetta un rogo doloso; una bomba è stata trovata in un cestino, diretta alla polizia o alla moschea; e un’altra bomba è esplosa a Malmö, ferendo una persona.
E’ incredibile che tutto ciò accada nella Svezia del ventunesimo secolo, una terra idolatrata per i suoi ideali ultra-avanzati. Un cameraman della TV di stato svedese mi ha chiesto perché questi episodi dovessero essere politicizzati a tutti i costi: perché non si poteva solo dire che qualcuno aveva messo dell’esplosivo in un cestino? L’ho guardato chiedendomi chi tra me e lui fosse pazzo.
Una volta tornata nel quartiere pericoloso, quello che la settimana prima era messo a ferro e fuoco sotto gli occhi del mondo, ho realizzato che ero l’unica donna in giro. Tutti gli altri erano giovani maschi africani. Gli ho rivolto alcune domande sugli scontri della settimana precedente. Mi hanno risposto “vaffanculo”, “troia bianca”, “torna dalla mamma”, facendo gesti piuttosto eloquenti di cosa avrebbero fatto alle loro “fidanzatine bianche”. Il mattino successivo, sono andata in un centro multiculturale femminile a chiedere alle donne dove erano quella notte; perché si erano chiuse in casa; perché, in un paese così fiero dei propri principi di uguaglianza, non alzavano la voce.
Una donna mi ha spiegato: “c’è uno strano codice morale qui a Rinkeby. Sei molto più esposta al rischio se non sei musulmana. Questi uomini credono di poterti fare di tutto, se non indossi una jihab o almeno non ti copri i capelli”. Un’altra, Bessie, mi ha detto: “non usciamo la sera, è troppo pericoloso. Io vivo qui da 25 anni e la situazione è andata sempre peggiorandosi.”. Parwin, una cristiana, incolpa le moschee: “E’ a causa di ciò che gli insegnano lì dentro. Sono salafiti, come quelli dell’ISIS. Dovrebbero chiuderle, perché è lì che i bambini vengono indottrinati”. Tutte, comunque, sono d’accordo: non è sicuro uscire. Tutte sono spaventate: musulmane, cristiane, giovani e vecchie.
Mi sono sentita molto vicina a queste donne: a proprio agio tra di loro, ma terribilmente sole a casa. Solo quattro di loro parlano svedese; le altre si affidano ancora all’arabo, anche dopo 25 anni. Sono uscita di lì molto triste. Triste perché perfino in una nazione che si vanta di essere all’avanguardia nei diritti femminili esistono casi del genere: donne di ogni età e religione chiuse in casa per paura; uomini che mi danno della troia bianca e mi dicono in faccia che cosa mi farebbero; dove sono le donne a svilire le altre donne lanciando accuse di razzismo; dove un giornalista vuole farmi accettare che una bomba in un cestino è normale. In coda per prendere l’autobus, circondata da queste persone, non mi sono mai sentita tanto sola.