Rinkeby è un sobborgo residenziale di Stoccolma chiamato la
“piccola Mogadiscio”. Il 90,7% dei 16.000 abitanti è di origine
straniera. Il tasso di criminalità è
altissimo. Nel 2014, le autorità svedesi, dopo una serie di
nuovi attacchi, hanno deciso di chiudere l’avamposto di polizia del quartiere e
di pianificarne la riapertura nel 2019, ammettendo implicitamente di non essere
in grado di presidiare quel territorio, la cui giurisdizione appartiene a bande
armati di migranti che scorazzano per le strade. Sono le bande a stabilire chi
può entrare e chi no a Rinkeby. E’
incredibile che tutto ciò accada nella Svezia del ventunesimo secolo, una terra
idolatrata per i suoi ideali oltremodo avanzati.
3 marzo 2017
Non sono
giunta in Svezia per seguire i disordini, o a seguito delle dichiarazioni di
Trump: in effetti, dovevo essere qui ancora a dicembre, prima che
gli scioperi degli aeroporti me lo impedissero.
Sono
venuta qui perché mi è stato chiesto. Più volte.
Le donne
svedesi mi hanno scritto sulla mail, o via lettera, per mostrarmi come è
cambiato il loro paese; padri mi hanno scritto di essere preoccupati per le
loro figlie, twittandomi che la Svezia non è affatto il paese che tutti
immaginano, e che le ragazze hanno paura ad uscire la sera.
Un immigrato
dodicenne è stato stuprato in un centro di accoglienza da altri presunti
migranti “minori non accompagnati”, che si è poi scoperto avere tra i 20 e i 45
anni. Questo ed altri casi simili sono stati rapidamente occultati.
Quando
Trump ha portato l’attenzione del mondo sulla Svezia, parlando in modo
piuttosto maldestro degli effetti che l’immigrazione ha avuto su quello che è
visto come il paese più liberal del mondo, il paese era pronto ad esplodere.
Quello che Trump ha fatto è stato accendere la miccia e innescare la reazione
di migliaia di giovani migranti provenienti da teatri di guerra e pronti a
combattere.
Cavalcando
questa inaspettata pubblicità, hanno protestato, saccheggiato e bruciato
macchine nel quartiere Rinkeby, noto come la “Piccola Mogadiscio”.
Mentre la
sinistra ha catalogato le accuse di Trump come “notizie false”, la destra ha
evidenziato il caos di un quartiere dove il 90% dei residenti è straniero. Sono
state diffuse le statistiche sugli stupri a Stoccolma, e interpretate in
diversi modi: chi vede la città svedese come la “capitale degli stupri
d’Europa“, e chi dice che invece l’aumento di questi è una semplice anomalia
statistica e, guardando bene il grafico, gli stupri sono anzi diminuiti nel
corso degli anni; ma, in un mondo di notizie polarizzate, ci sono ancora molte
verità da svelare.
Una
giovane ragazza di 27 anni -chiamiamola Lucy- oggi ha paura ad uscire di casa
da sola. Lei vive vicino a un grosso centro commerciale che attira molti
migranti provenienti dai quartieri pericolosi, e minacciano il suo percorso da
casa a lavoro. Sotto il ponte vicino al suo appartamento stazionano bande di
uomini, giorno e notte. Lucy gira sempre con uno spray al peperoncino in tasca
e conosce a memoria tutti i casi di stupro avvenuti di recente; me li cita uno
per uno e teme che la prossima vittima sarà lei.
Dei ladri
le sono entrati in casa la settimana scorsa, portandole via il computer, le
chiavi della macchina, e infine la macchina. La polizia le ha detto che è
troppo impegnata per aiutarla.
Lucy non
vuole far vedere le proprie fotografie, non perché teme un assalto da parte
degli immigrati, ma da parte delle femministe, che già l’hanno accusata di essere
razzista. Gli immigrati la spaventano, ma sono state le donne svedesi a
metterla a tacere.
Le ho
viste in azione quando è stata trovata una bomba a mano in un cestino fuori da
una stazione di polizia, in uno dei quartieri più pericolosi. Ho chiesto alla
polizia chi fosse il bersaglio, e mi hanno detto che non lo sapevano. Ho
chiesto al capo della moschea; lui ritiene il bersaglio fosse la polizia.
Dopodiché, due donne mi hanno fermata dicendomi di non tirare in mezzo la
moschea, di non mostrare la cosa come se avesse a che fare con gli islamici.
Era una cosa che riguardava la polizia – non gli immigrati. Mi chiedo se si
siano rese conto della situazione: una bomba in un cestino. Dodici ore dopo il
mio atterraggio in Svezia, un centro di accoglienza è andato a fuoco, si
sospetta un rogo doloso; una bomba è stata trovata in un cestino, diretta alla
polizia o alla moschea; e un’altra bomba è esplosa a Malmö, ferendo una
persona.
E’
incredibile che tutto ciò accada nella Svezia del ventunesimo secolo, una terra
idolatrata per i suoi ideali ultra-avanzati. Un cameraman della TV di stato
svedese mi ha chiesto perché questi episodi dovessero essere politicizzati a
tutti i costi: perché non si poteva solo dire che qualcuno aveva messo
dell’esplosivo in un cestino? L’ho guardato chiedendomi chi tra me e lui fosse
pazzo.
Una volta
tornata nel quartiere pericoloso, quello che la settimana prima era messo a
ferro e fuoco sotto gli occhi del mondo, ho realizzato che ero l’unica donna in
giro. Tutti gli altri erano giovani maschi africani. Gli ho rivolto alcune
domande sugli scontri della settimana precedente. Mi hanno risposto
“vaffanculo”, “troia bianca”, “torna dalla mamma”, facendo gesti piuttosto
eloquenti di cosa avrebbero fatto alle loro “fidanzatine bianche”. Il mattino
successivo, sono andata in un centro multiculturale femminile a chiedere alle
donne dove erano quella notte; perché si erano chiuse in casa; perché, in un
paese così fiero dei propri principi di uguaglianza, non alzavano la voce.
Una donna
mi ha spiegato: “c’è uno strano codice morale qui a Rinkeby. Sei
molto più esposta al rischio se non sei musulmana. Questi uomini credono di
poterti fare di tutto, se non indossi una jihab o almeno non ti copri i
capelli”. Un’altra, Bessie, mi ha detto: “non usciamo la sera, è troppo
pericoloso. Io vivo qui da 25 anni e la situazione è andata sempre
peggiorandosi.”. Parwin, una cristiana, incolpa le moschee: “E’ a causa di ciò
che gli insegnano lì dentro. Sono salafiti, come quelli dell’ISIS. Dovrebbero
chiuderle, perché è lì che i bambini vengono indottrinati”. Tutte, comunque,
sono d’accordo: non è sicuro uscire. Tutte sono spaventate: musulmane,
cristiane, giovani e vecchie.
Mi sono
sentita molto vicina a queste donne: a proprio agio tra di loro, ma
terribilmente sole a casa. Solo quattro di loro parlano svedese; le altre si
affidano ancora all’arabo, anche dopo 25 anni. Sono uscita di lì molto triste.
Triste perché perfino in una nazione che si vanta di essere all’avanguardia nei
diritti femminili esistono casi del genere: donne di ogni età e religione chiuse in casa per paura; uomini che mi
danno della troia bianca e mi dicono in faccia che cosa mi farebbero; dove
sono le donne a svilire le altre donne lanciando accuse di razzismo; dove un
giornalista vuole farmi accettare che una bomba in un cestino è normale. In
coda per prendere l’autobus, circondata da queste persone, non mi sono mai
sentita tanto sola.
(di Katie Hopkins,
Daily Mail – Traduzione di Federico Bezzi)