"...in Italia lascio un lavoro a
tempo indeterminato, una casa, un’auto, la mia famiglia e tutte le certezze, le
radici che ho. Parto arrabbiata, con la fretta di chi sente di abbandonare una
nave che sta affondando. Me ne vado perché devo aprire una Partita Iva per il
mio bellissimo lavoro da freelance, ma non ho intenzione di farlo in Italia. Me
ne vado perché sono stufa di lavorare come un asino e vedermi sottratta la
maggior parte del reddito da uno Stato che io considero vergognoso da troppi
decenni. Vado via perché non voglio più mendicare mesi per ottenere un
pagamento, né ricevere un’e-mail da un’azienda che non vuole onorare il suo
debito".
Elena Torresani |
Elena Torresani - 25.2.2015
Pubblicato su gentile
concessione dell'AutriceSiamo in tanti ad andarcene, ormai è un’emorragia.
Io sono solo una di una folla, ma stavolta sono io e non un altro: questo, nella mia sceneggiatura personale, fa la differenza. Tutto è diverso quando sei tu e non un altro.
WimDelvoye, un artista belga, ha
rappresentato gli esseri umani in sintesi nella sua opera “Cloaca Machine”: un
grande apparato digerente che ingurgita cibo ed espelle rifiuti.
Per discostarsi da questo
realismo cinico ci restano i sentimenti che proviamo, le relazioni che creiamo
e sogni che realizziamo, quelli che ci portano un po’ più su delle nostre
budella.
Per questo, in Italia lascio un
lavoro a tempo indeterminato, una casa, un’auto, la mia famiglia e tutte le
certezze, le radici che ho. Parto arrabbiata, con la fretta di chi sente di abbandonare
una nave che sta affondando.
Ogni giorno mi alzo dal mio letto
nella Pianura Padana sentendo di subire un’ingiustizia che non sono più
disposta a sopportare, con l’unico rammarico di aver stupidamente sperato
troppo a lungo di poter in qualche modo, nel mio piccolo, cambiare le
cose.
Me ne vado perché devo aprire una
Partita Iva per il mio bellissimo lavoro da freelance, ma non ho intenzione di
farlo in Italia. Me ne vado perché sono stufa di lavorare come un asino e
vedermi sottratta la maggior parte del reddito da uno Stato che io considero
vergognoso da troppi decenni.
Vado via perché non voglio
più mendicare mesi per ottenere un pagamento, né ricevere un’e-mail da
un’azienda che non vuole onorare il suo debito in nome del fatto che “la gestione
dei social network è notoriamente gratuita”. True story.
Non voglio più nemmeno
essere contattata dai “guru” del digitale italiano (quelli che vanno in giro
per conferenze a spiegare quanto sia necessario il digitale e quanto e perché e
come vada retribuito) per collaborazioni gratuite camuffate da grandi
occasioni.
Sono stanca delle lobby che se la
suonano e se la cantano, del sistema che disincentiva l’impresa, dei cugini e
fratelli che occupano posizioni strategiche. Non sopporto più l’intoccabilità
degli incompetenti, il mercato del lavoro mortificante e impazzito.
Io e il mio compagno stiamo
lasciando tutte le nostre certezze. Partiremo con due mutui alle spalle verso
una città molto costosa, dove dovremmo guadagnare abbastanza per mantenere le
case e i conti italiani (di cui non riusciamo a disfarci) e la nuova vita
all’estero. Partiamo con contatti estremamente interessanti, ma senza niente di
certo. Saremo immigrati, e tra non molto sogneremo in una lingua diversa
anche se non la sapremo nemmeno parlare come si deve.
Io che sono stata sempre molto
consapevole delle mie pecche professionali ma anche dei miei punti forti, ora
non sono più sicura di niente, perché lasciare tutto significa anche mettersi
in discussione come mai prima, affrontare ambienti nuovi, giocare una partita
infinitamente più competitiva: nessuno mi dica “ti invidio”.
Non so come andrà, ma restare a
guardare non è mai stata un’opzione. Perché vogliamo fare e vogliamo fare bene,
non chiediamo altro che un sistema che ce lo permetta, riconoscimento del
lavoro che facciamo, pagamenti puntuali, tasse eque: quello che dovrebbe essere
la normalità e che in Italia è diventato un miraggio.
Prepariamo cartoni e grandi hard
disk esterni, installiamo Skype sul telefono di mamma e papà, mettiamo in
vendita cose, ne regaliamo molte altre, chiudiamo utenze, scegliamo cosa ci
accompagnerà oltre Manica e cosa no. La vita in due valigie. Nelle
valigie, i clienti buoni che rimarranno con noi, i tanti amici. Sono felice
perché con noi non se ne vanno due disoccupati, ma due che un lavoro ce
l’avevano e che l’hanno lasciato a chi ne aveva bisogno.
Per il resto, credo che tutte le
persone in qualche modo insoddisfatte, arrabbiate, infelici o frustrate da una
certa situazione abbiano non solo l’obbligo personale e sociale (perché
l’infelicità ha un costo sociale altissimo) di provare in tutti i modi a
migliorarla, ma anche il dovere di darsi un limite oltre il quale bisogna
semplicemente andarsene: da un sentimento, da un luogo. Ad un certo punto
occorre cambiare treno. Così.