Le donne occidentali,
forse, non hanno l’obbligo di nascondere il corpo, ma ne hanno uno assai più
insidioso: la magrezza. Perche’ essere magre corrisponde ad essere belle. Lo
pensiamo. E’ inutile prenderci in giro con affermazioni che inevitabilmente si
scontrano con una convinzione ormai radicata: essere magre è molto meglio di
essere “in carne”. Al pari del burqa, anche questa è una forma di controllo,
una condanna tacitamente accettata all’imprigionamento di un corpo perfetto
all’interno di un “velo” non solo fisico ma anche mentale.
“Fu in un grande
magazzino americano, nel corso di un fallimentare tentativo di comprarmi una
gonna di cotone, che mi sentii dire che i miei fianchi erano troppo larghi per
la taglia 42. Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine
di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto
quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti quali
l’Iran, l’Afghanistan o l’Arabia Saudita”.
E’ in questo modo che Fatema Mernissi, scrittrice e
sociologa marocchina che da sempre si occupa della condizione femminile nel
bacino del mediterraneo, descrive nel suo libro “L’harem e l’occidente” un
episodio a lei accaduto.
“La commessa aggiunse un giudizio condiscendente
che suono’ per me come la fatwa di un imam:
– Lei e’ troppo grossa!
– Troppo grossa rispetto a cosa?
– Rispetto alla taglia 42. Le taglie 40 e 42 sono la norma. Le taglie anomale
come quella di cui lei ha bisogno si possono comprare in negozi specializzati.
All’improvviso, in quel tranquillo negozio americano in cui ero entrata cosi’
trionfalmente nel mio legittimo status di consumatrice sovrana pronta a
spendere il proprio denaro, mi sentii ferocemente attaccata:
– E chi decide la norma? Chi lo dice che tutte devono avere la taglia 42?
– La norma e’ dappertutto, mia cara, su tutte le riviste, in televisione, nelle
pubblicita’. Non puoi sfuggire. C’e’ Calvin Klein, Ralph Laurent, Gianni
Versace, Giorgio Armani, Mario Valentino (…) Da che parte del mondo viene lei?
– Vengo da un paese dove non c’e’ una taglia per gli abiti delle donne. Io
compro la mia stoffa e la sarta o il sarto mi fanno la gonna di seta o di pelle
che voglio. Non devo fare altro che prendere le mie misure ogni volta che ci
vado. Ne’ la sarta ne’ io sappiamo esattamente la misura della gonna nuova. Lo
scopriamo insieme mentre la si fa. A nessuno interessa la mia taglia in Marocco
fintanto che pago le tasse per tempo. Attualmente non so proprio quale sia la
mia taglia, a dire il vero. (…)”
Quelle di Fatema Mernissi sono parole dure,
soprattutto se dette da chi e’ nata e cresciuta in un mondo in cui l’hijàb, e
l’obbligo imposto alla donna di “indossare” un indumento che la renda
“accettabile” agli occhi della comunita’, lo conosce davvero.
Pare che anche l’Occidente abbia dunque il suo
“velo”, il suo hijàb, il suo burqa. Le donne occidentali, forse, non hanno
l’obbligo di nascondere il corpo, ma ne hanno uno assai piu’ insidioso: la
magrezza. Perche’ essere magre corrisponde ad essere belle. Lo pensiamo. E’
inutile prenderci in giro con affermazioni che inevitablimente si scontrano con
una convinzione ormai radicata: essere magre e’ molto meglio di essere “in
carne”. E cosi’ le donne vengono bombardate da immagini che raffigurano i
modelli femminili imposti dalle attese maschili, nei quali non e’ sempre facile
identificarsi. Allora diventa imperativo almeno avvicinarsi, assomigliare un
po’ a quell’aspetto fisico femminile, il cui requisito estetico principale e’
appunto la magrezza. Il primo da possedere per collocarsi sulla linea di
confine tra bellezza e bruttezza, e che ha il potere di conferire un valore
alla donna, come se si trattasse di un manufatto, di una statua, di qualcosa
d’inanimato.
E’ facile capire come, al pari del burqa, anche
questa sia una forma di controllo, una condanna tacitamente accettata
all’imprigionamento di un corpo perfetto all’interno di un “velo” fisico, ma
anche mentale, persino a costo di renderlo innaturale.
In “Tha Madwoman in the Attic”, di Sandra Gilbert e
Susan Giubar, si puo’ leggere: “Imparando a diventare un bell’oggetto, la
ragazza impara l’ansia – forse persino il disgusto – verso la sua stessa carne.
Scrutando ossessivamente nei reali cosi’ come nei metaforici specchi che la
circondano, desidera letteralmente “ridurre” il proprio corpo. Nel diciottesimo
secolo questo desiderio di essere bella e fragile porto’ all’uso di corpetti
stretti e a bere aceto. La nostra epoca, invece, ha prodotto innumerevoli diete
e digiuni “controllati”, cosi’ come lo straordinario fenomeno dell’anoressia
adolescenziale”.
Ed e’ cosi’ che la donna occidentale, fin da quando
e’ molto giovane, rinuncia al diritto di avere una propria identita’ fisica, ed
insegue una bellezza calata dall’alto, stabilita a tavolino, affinche’ senta di
esistere solo quando sa di essere osservata, e che e’ solo attraverso lo
sguardo dell’uomo che la sua vera femminilita’ puo’ essere percepita. In fondo,
si tratta ancora una volta di un asservimento all’idea maschile della donna. Se
il burqa obbliga il corpo femminile a rinunciare ad una forma, la taglia 42
impone un aspetto valido per ogni donna. Una divisa uguale per tutte, senza
peculiarita’ estetiche, senza specifiche note di personalita’. Donne inquadrate
e irreggimentate sotto l’unica bandiera della magrezza.
Cio’ rappresenta – e’ facile capirlo – un insieme
facilmente controllabile, manipolabile e, quindi, piu’ rassicurante per gli
uomini. Ma ogni donna, in Oriente come in Occidente, prima di piegarsi a tali
costrizioni, prima di subire passivamente quello che le viene imposto – troppe
volte subdolamente spacciato per il suo benessere – dovrebbe pensare all’idea
che ha di se stessa, cercando di realizzare innanzitutto quell’idea, primo
passo per l’edificazione di un’identita’ propria autenticamente libera,
autonoma e al riparo dalle frustrazioni che un mondo che basa ogni valore sulla
superficialita’ e trascura il contenuto, fa subire a chi non si adegua alle sue
stupide regole.