domenica 21 agosto 2016

IL BURQA D'OCCIDENTE E' LA TAGLIA 42


Le donne occidentali, forse, non hanno l’obbligo di nascondere il corpo, ma ne hanno uno assai più insidioso: la magrezza. Perche’ essere magre corrisponde ad essere belle. Lo pensiamo. E’ inutile prenderci in giro con affermazioni che inevitabilmente si scontrano con una convinzione ormai radicata: essere magre è molto meglio di essere “in carne”. Al pari del burqa, anche questa è una forma di controllo, una condanna tacitamente accettata all’imprigionamento di un corpo perfetto all’interno di un “velo” non solo fisico ma anche mentale.


Fu in un grande magazzino americano, nel corso di un fallimentare tentativo di comprarmi una gonna di cotone, che mi sentii dire che i miei fianchi erano troppo larghi per la taglia 42. Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti quali l’Iran, l’Afghanistan o l’Arabia Saudita”.
E’ in questo modo che Fatema Mernissi, scrittrice e sociologa marocchina che da sempre si occupa della condizione femminile nel bacino del mediterraneo, descrive nel suo libro “L’harem e l’occidente” un episodio a lei accaduto.
“La commessa aggiunse un giudizio condiscendente che suono’ per me come la fatwa di un imam:

– Lei e’ troppo grossa!
– Troppo grossa rispetto a cosa?
– Rispetto alla taglia 42. Le taglie 40 e 42 sono la norma. Le taglie anomale come quella di cui lei ha bisogno si possono comprare in negozi specializzati.
All’improvviso, in quel tranquillo negozio americano in cui ero entrata cosi’ trionfalmente nel mio legittimo status di consumatrice sovrana pronta a spendere il proprio denaro, mi sentii ferocemente attaccata:
– E chi decide la norma? Chi lo dice che tutte devono avere la taglia 42?
– La norma e’ dappertutto, mia cara, su tutte le riviste, in televisione, nelle pubblicita’. Non puoi sfuggire. C’e’ Calvin Klein, Ralph Laurent, Gianni Versace, Giorgio Armani, Mario Valentino (…) Da che parte del mondo viene lei?
– Vengo da un paese dove non c’e’ una taglia per gli abiti delle donne. Io compro la mia stoffa e la sarta o il sarto mi fanno la gonna di seta o di pelle che voglio. Non devo fare altro che prendere le mie misure ogni volta che ci vado. Ne’ la sarta ne’ io sappiamo esattamente la misura della gonna nuova. Lo scopriamo insieme mentre la si fa. A nessuno interessa la mia taglia in Marocco fintanto che pago le tasse per tempo. Attualmente non so proprio quale sia la mia taglia, a dire il vero. (…)”

Quelle di Fatema Mernissi sono parole dure, soprattutto se dette da chi e’ nata e cresciuta in un mondo in cui l’hijàb, e l’obbligo imposto alla donna di “indossare” un indumento che la renda “accettabile” agli occhi della comunita’, lo conosce davvero.
Pare che anche l’Occidente abbia dunque il suo “velo”, il suo hijàb, il suo burqa. Le donne occidentali, forse, non hanno l’obbligo di nascondere il corpo, ma ne hanno uno assai piu’ insidioso: la magrezza. Perche’ essere magre corrisponde ad essere belle. Lo pensiamo. E’ inutile prenderci in giro con affermazioni che inevitablimente si scontrano con una convinzione ormai radicata: essere magre e’ molto meglio di essere “in carne”. E cosi’ le donne vengono bombardate da immagini che raffigurano i modelli femminili imposti dalle attese maschili, nei quali non e’ sempre facile identificarsi. Allora diventa imperativo almeno avvicinarsi, assomigliare un po’ a quell’aspetto fisico femminile, il cui requisito estetico principale e’ appunto la magrezza. Il primo da possedere per collocarsi sulla linea di confine tra bellezza e bruttezza, e che ha il potere di conferire un valore alla donna, come se si trattasse di un manufatto, di una statua, di qualcosa d’inanimato.
E’ facile capire come, al pari del burqa, anche questa sia una forma di controllo, una condanna tacitamente accettata all’imprigionamento di un corpo perfetto all’interno di un “velo” fisico, ma anche mentale, persino a costo di renderlo innaturale.
In “Tha Madwoman in the Attic”, di Sandra Gilbert e Susan Giubar, si puo’ leggere: “Imparando a diventare un bell’oggetto, la ragazza impara l’ansia – forse persino il disgusto – verso la sua stessa carne. Scrutando ossessivamente nei reali cosi’ come nei metaforici specchi che la circondano, desidera letteralmente “ridurre” il proprio corpo. Nel diciottesimo secolo questo desiderio di essere bella e fragile porto’ all’uso di corpetti stretti e a bere aceto. La nostra epoca, invece, ha prodotto innumerevoli diete e digiuni “controllati”, cosi’ come lo straordinario fenomeno dell’anoressia adolescenziale”.
Ed e’ cosi’ che la donna occidentale, fin da quando e’ molto giovane, rinuncia al diritto di avere una propria identita’ fisica, ed insegue una bellezza calata dall’alto, stabilita a tavolino, affinche’ senta di esistere solo quando sa di essere osservata, e che e’ solo attraverso lo sguardo dell’uomo che la sua vera femminilita’ puo’ essere percepita. In fondo, si tratta ancora una volta di un asservimento all’idea maschile della donna. Se il burqa obbliga il corpo femminile a rinunciare ad una forma, la taglia 42 impone un aspetto valido per ogni donna. Una divisa uguale per tutte, senza peculiarita’ estetiche, senza specifiche note di personalita’. Donne inquadrate e irreggimentate sotto l’unica bandiera della magrezza.
Cio’ rappresenta – e’ facile capirlo – un insieme facilmente controllabile, manipolabile e, quindi, piu’ rassicurante per gli uomini. Ma ogni donna, in Oriente come in Occidente, prima di piegarsi a tali costrizioni, prima di subire passivamente quello che le viene imposto – troppe volte subdolamente spacciato per il suo benessere – dovrebbe pensare all’idea che ha di se stessa, cercando di realizzare innanzitutto quell’idea, primo passo per l’edificazione di un’identita’ propria autenticamente libera, autonoma e al riparo dalle frustrazioni che un mondo che basa ogni valore sulla superficialita’ e trascura il contenuto, fa subire a chi non si adegua alle sue stupide regole.