Perché
è culturalmente mostruoso (e giuridicamente lo è in tutto il mondo) il caso di
Alberto Stasi, assolto due volte e ora condannato da chi non ha visto le prove.
Un’analisi del caso Stasi scritta da Piero Tony, già sostituto
procuratore generale di Firenze, presidente del tribunale per i minorenni della
Toscana e procuratore capo di Prato, oggi in pensione.
di Piero Tony | 15 Dicembre 2015 – Il Foglio
Tristezza e rabbia, oggi 12 dicembre 2015, per me e
per tanti altri, fortunatamente non sono solo. Perché, a seguito di un processo
durato circa 8 anni, Alberto Stasi stamani si è costituito dopo aver riportato
una condanna a 16 anni di reclusione resa definitiva dalla sentenza emessa
dalla Cassazione. Per carità, nessuna polemica – ci mancherebbe altro – nei
confronti dei magistrati. Ma tanta rabbia per un sistema giudiziario che non
può non fare paura per quanto è lento e contraddittorio. E tanta vergogna visto
che Voltaire si rivolta nella fossa da ormai quasi 250 anni con la stessa
rabbia.
Alberto Stasi venne assolto in primo e secondo grado,
evidentemente perché quantomeno la maggioranza dei magistrati intervenuti aveva
giudicato insufficienti le prove a suo carico. Magistrati regolarmente in
servizio, di normale esperienza, mai interdetti per imbecillità, mai accusati
di condotte dolose o colpose fuorvianti la Giustizia. Ma dalla procura venne
proposta impugnazione e la Suprema Corte annullò l’assoluzione con rinvio alla
corte d’Appello che questa volta, naturalmente in diversa composizione come
vuole la legge, ritenne sufficienti le prove a carico. Nuovo ricorso da parte
di tutte le parti, e oggi la Suprema Corte ha respinto i ricorsi: così confermando
la condanna a 16 anni di reclusione.
La scomparsa del ragionevole dubbio
“Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del
reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, prescrive, come è a
tutti noto, l’art. 533 del Codice di procedura penale. E allora? Allora ancora
una volta ha colpito quella maledetta disposizione (artt. 570 e 593 dello
stesso Codice) che dal 2006 prevede che il pubblico ministero possa impugnare
anche le sentenze di assoluzione. Disposizione introdotta dopo una sentenza
della Corte costituzionale che, con motivazione per più versi e da più parti criticata,
aveva abrogato l’allora vigente ininpugnabilità delle assoluzioni per motivi
che non fossero di legittimità.
Disposizione che non di rado determina
situazioni kafkiane come questa: essendo vistosamente incompatibile con i
canoni di guida e garanzia “in dubio pro reo” e “al di là di ogni ragionevole
dubbio”. Se uno viene assolto è assolto e basta in tutto il mondo. In tutto il
mondo meno che da noi. E per far questo il resto del mondo scomoda addirittura,
guarda caso, la preclusione processuale del “ne bi in idem”. E dunque solo da
noi accadono cose così strazianti, che uno possa oggi sentirsi dire “sei
innocente” e domani “sei colpevole” da magistrati ammantati della stessa toga e
con la stessa espressione solenne sul volto, perché l’espressione non cambia
tra chi comprende e chi crede di aver compreso.
Perché accade tutto ciò? Di una riforma, che preveda
anche una formazione professionale più seria, c’è bisogno, anzi urgenza.
Affinché un’assoluzione resti assoluzione per sempre, e i giudicanti dei
successivi gradi non siano costretti a transustanziarsi per poter giudicare ex
ante: ovvero come fosse la prima volta, come se l’assoluzione e le sottese
motivazioni non fossero mai esistite, chiuse alla realtà esterna proprio come
gli antichi eunuchi stavano chiusi nell’harem. E’ urgente una riforma profonda per
una cultura della prova che ai nostri giorni non sempre brilla, perché ancora
oggi non di rado si continua a giudicare sulla base della sensazione, del
“secondo me”, intuendo o pensando di intuire in relazione alla fisiognomica, al
comportamento processuale ed extra-processuale, perfino alle caratteristiche
socio-esistenziali, al muso e allo sguardo non paffuti e sorridenti, ma invece
affilati e algidi. O al grado di compostezza e di dolore delle vittime.
Vogliamo metterci per un attimo nei panni dei supremi
giudici, e tentare di immaginare oggetto e spessore delle loro discussione e
dei loro interrogativi in vista della decisione presa sul caso Stasi? Sì è
vero, è stato assolto in primo grado e poi anche nel primo processo d’appello
con valutazioni più o meno motivate, ma per noi non deve rilevare, ci
mancherebbe altro, per legge dobbiamo giudicare ex ante. Sì è vero, le ragioni
dell’assoluzione non appaiono proprio abnormi, ma sicuramente sono opinabili: e
allora? Sì è vero, oggi lo stesso procuratore generale di udienza ha richiesto
l’annullamento della sentenza perché le prove sarebbero state mal governate,
per di più in assenza di un movente ragionevole: e allora? “E allora”, ex ante
un cavolo, bando ai sofismi e scendiamo dalla luna, verrebbe da rispondere.
Nella realtà la storia infinita di questo processo è fitta solo di
contraddizioni. Perché continuo a guardare sotto il tavolo, chiedendomi dove
mai sia finito l’al di là di ogni ragionevole dubbio? Lo ripeto ancora a scanso
di equivoci: c’entra il sistema processuale – che va urgentemente riformato – e
non i magistrati suoi celebranti. Attendiamo tutti con ansia di poter leggere
la motivazione della decisione di Cassazione sul caso, ma credo che essa sia
assolutamente prevedibile: diranno che l’assenza di tracce di sangue sulle
scarpe fa piazza pulita di qualsiasi ipotesi alternativa; diranno che la
frequentazione da parte dello Stasi di siti pornografici e le modalità del
litigio, ad essa frequentazione verosimilmente collegato, appartengono a grave
perversione psicopatologica e costituiscono il movente; che infine la sentenza
di condanna della seconda corte d’Appello appare logicamente coerente con tutte
le risultanze probatorie. Quali? Quelle che elencheranno minuziosamente ma solo
per nome, come da indice, essendo impraticabile un reale controllo del loro
peso valoriale. Una motivazione più o meno apparente, insomma. Questo perché –
senza volerci attaccare a suor Gertrude e al solito “guazzabuglio del cuore
umano” – nel campo delle prove logiche del processo indiziario non tutto è
sempre sondabile e confrontabile e comprovabile e collegabile al di là di ogni
ragionevole dubbio.
Non
spiegheranno – solo perché non è spiegabile se non con mere congetture – come
Stasi, per quanto si sa al primo litigio e comunque mai segnalato per condotte
aggressive, avrebbe potuto perdere completamente le staffe per un motivo
assolutamente inadeguato, quale che esso sia tra quelli sospettati dall’accusa,
e massacrare mortalmente Chiara con dolo perdurante nella sua elevata
intensità, e aggravare le lesioni spingendone il corpo giù per le scale e poi,
recuperata freddezza in pochi attimi, inscenare il ritrovamento e tutto il
resto. Né potranno spiegare in modo soddisfacente del come e perché i
magistrati delle due prime sentenze di assoluzione avrebbero preso
quell’abbaglio. E perché avrebbe preso ieri lo stesso abbaglio un autorevole ed
esperto pm di udienza, nel chiedere l’annullamento della sentenza di condanna.
Non è ammissibile che tutto ciò possa ripetersi. Ecco
perché a me pare che sia soprattutto un problema di cultura e che s’imponga una
radicale e urgente riforma giudiziaria. Cultura del rispetto della dignità
umana che, se sussistente, non può che impedire compressioni di diritti
fondamentali sulla sola base di personali intuizioni. Cultura della prova e dei
suoi limiti. Cultura del confronto e del riguardo per opinioni e giudizi
diversi. Cultura insomma.
Mi auguro che Alberto Stasi sia colpevole. Il
contrario sarebbe terribile per tutti, compresi – lo accenno per i fortunati
credenti – quelli che non ci sono più e gli volevano bene