domenica 14 maggio 2023

LA MEDICINA DEI MEDICI PATITI

 Stamattina ho deciso di scrivere sull’onda della rabbia e dell’orgoglio. Non c’è modo peggiore di scrivere, ma me ne assumo la piena responsabilità. E’ una mia riflessione  sullo stato di salute mentale della Medicina dopo la morte di Fulvio, cui mi legava parentela ed amicizia.


 
Dr.ssa Filomena Rita Di Mezza

 Psicoterapeuta


La rabbia e l’orgoglio è un libro di Oriana Fallaci che non mi è piaciuto. E lo dico ancora a malincuore, perché la grande giornalista toscana è un riferimento fondamentale della mia formazione culturale e in quel libro non ho riconosciuto la sua cifra distintiva: farti sentire la rabbia e l’orgoglio di una denuncia, senza perdere l’equilibrio. 

Stamattina ho deciso di scrivere sull’onda della rabbia e dell’orgoglio. Non c’è modo peggiore di scrivere, ma me ne assumo la piena responsabilità.

I medici, il personale sanitario sono innanzitutto “persone”, esattamente come i malati di cui si occupano con devozione, competenza e a volte sfibrante assiduità, pertanto essi sono soggetti ad ammalarsi esattamente come le “persone” che devono curare. L’ esposizione prolungata a situazioni ripetutamente dolorose, incerte, talvolta traumatiche e che hanno a che fare con l’impotenza, la dipendenza, la minaccia della morte, rischia di renderli particolarmente provati nella loro salute psicofisica.

Secondo voi, tra il mio amico che urla fino a costringerci a voltare il capo, come lo vedessimo!, mentre invece siamo fuori dal pronto soccorso, perché gli stanno facendo un orribile tampone nasale posteriore, sente un dolore atroce, è disperato, e il povero medico che glielo deve fare per salvarlo dal sangue che cola come da un rubinetto che non si può chiudere, chi, chi è più dannatamente provato?

Il mio amico, con le sue urla che perdono il timbro umano della voce, perché il dolore molto forte ci avvicina alla nostra natura istintiva ed animale, o il medico che muove le sue mani decise nella gola e nel naso, accompagnando l’operato con parole inopportune ed inopportunamente dette a voce troppo alta, con una modalità rude che trova l’indifendibile alibi del: “però è molto bravo, è capace”…

Chi? chi è più dannatamente provato?

Il mio amico, di certo. Più provato di così…come si dice, si muore. E infatti è morto, pochi giorni dopo, mentre i medici si impegnavano a diagnosticare e curare.

Si muore sempre così. Con lo stupore inebetito di noi mortali. Senza possibilità di appello. A nessuno. Perché le variabili della realtà concreta per cui moriamo sono sempre insufficienti; anche quando ci dessero risposte precise, resta sempre un dubbio, una perplessità, un se, un ma, che appartengono al Padreterno, al Fato, alla Metafisica. Al nulla disincantato dei cinici. 

Per un po’ continueremo a cercare ragioni, responsabilità, circostanze fatali, colpe. Le troviamo. Non le troviamo. Poi corriamo ai cimiteri- alle urne -agli amici in comune- ai ricordi, alla poesia del tuo poeta preferito, amico mio, Borges: El instante.

Corriamo anche da fermi, perché l’immobilità appartiene alla morte e noi siamo vivi e, con la rabbia e l’orgoglio dei mortali, non accettiamo la morte. Non l’accettiamo mai veramente, anche quando diciamo che “una vita pienamente vissuta rende più naturale il trapasso”. Queste sono solo razionalizzazioni, carezze raffinate del pensiero, ma nei fondali psichici, la nostra morte non è contemplabile. Forse è anche per questo che, in quei fondali, i folli si immergono e non vogliono più risalire.

Invece, la sofferenza che precede la morte, il calvario di alcuni (tranne di quelli che tra la vita e la morte fanno un lungo sonno senza soluzione di continuità), è argomento diverso, che con voi voglio interrogare.

Secondo voi, i medici e gli infermieri che si sono occupati del mio amico, dei loro parenti, colleghi, amici o sconosciuti quanto altro   sangue, urla e puzza e corpi degradati avranno visto negli ultimi anni in ospedale? Pensiamo davvero, o essi stessi credono davvero che la loro “buona salute”, indispensabile per curare gli  altri,  sia tutelata da un camice, dagli strumenti di lavoro con cui sanno tagliare, dalla lunga esperienza o dal supporto tra colleghi?  


Certo, le moltissime vite salvate, i neonati che illuminano gli ospedali  sono un farmaco infallibile per restituire loro carica e fiducia:  ma non può e non deve bastare, perché la buona salute di chi cura è un dovere oltre che un diritto.

Se non stai sufficientemente bene, non devi curare.

Ma se ti fai aiutare e ti curi, curerai meglio di prima, perché come dice un proverbio: “il medico patito è più bravo”.

Ricevo un certo numero di medici, più raramente altri professionisti sanitari nel mio studio. Chiedono aiuto per sintomi che schiudono ai loro occhi la nostra “miseria umana”, come la chiamava Freud, la miseria che ci rende talvolta irrazionali, contraddittori, incapaci rispetto a quello che fino a poco prima  sapevamo far bene e con soddisfazione. Chiedono aiuto perché, improvvisamente, la mano che deve incidere la carne, trema, lo sguardo si annebbia, manca l’aria sotto la mascherina. “Ho paura di morire dottoressa”.

Un’altra mi dice che non può più salire in ambulanza, ha vertigini che non ha mai avuto. Gira la luce della sirena, ma anche il mondo dentro e intorno a lei. “Voglio scendere, fammi scendere, sto male”, ha urlato piangendo all’autista. Ha lasciato colleghi e il malato. E’ oppressa dal senso di colpa. E, per la prima volta, sperimenta che significa essere sopraffatta dalla malattia.

Un’altra non vuole più lavorare in rianimazione: troppi dubbi tra l’efficienza medica e l’etica esistenziale. Da dove mi viene questo pensare che mi rende difficile agire con sicurezza. I dubbi da quella stanza dove i pazienti per lo più dormono, si sono infiltrati come sabotatori interni nella mia camera da letto, nel mio sonno. Devo fare ore di rituali per dormire un’oretta, non riesco più ad abbandonarmi al buio della notte, devo rimanere sveglia.

Si ha sempre un po’ vergogna di dirsi malati. Cari medici e infermieri, leggete in proposito il bel saggio di Virginia Woolf sulla malattia. Certo lei era persona informata sui i fatti, era psichicamente malata, ma anche, a differenza di noialtri che siamo modeste menti, una grande scrittrice e come tale capace di illuminarci su aspetti della malattia su cui dovremmo essere preparati benissimo, così come lo siamo ad esempio sull’anatomia.

Si ha sempre paura e vergogna della dipendenza da chi ti deve curare.

Il mio amico, cui di certo non mancava l’arte della parola, entrando in pronto soccorso, alla vista del medico alle prese con tante emergenze, ne ha intuito con lungimiranza la fatica psicofisica e ironicamente ha detto: non è che dopo ve la prendete con me?

Eccola, la paura del bambino che siamo tutti noi, rispetto a chi ci deve curare.

 

 

 I medici “patiti”, però, quelli di cui vi ho sopra accennato, quelli che hanno provato il vacillare della salute psichica e che hanno chiesto aiuto, possono capire meglio i loro pazienti. Soprattutto possono convincersi che quella miseria umana che ci abita è un inesauribile serbatoio di umanità, cui personalmente si può attingere per continuare a lavorare sufficientemente bene..

Della morte in sé non possiamo dire nulla, della modalità con cui assistiamo, sì.

-“E ‘l modo ancor m’offende”-

Ora, per favore, non obiettate, in maniera superficiale, che l’intervento della medicina deve essere distaccato dall’emotività e dalle questioni interiori, perché diversamente non si potrebbero affrontare problemi che richiedono freddezza, rapidità decisionale etc. E’ argomento incompetente, perché il distacco non ha nulla a che vedere con la freddezza, semmai con la TEMPERANZA, che è cosa ben diversa, è miscela di freddo e calore umano, dotazione psichica necessaria, ma difficile da acquisire, sicuramente più difficile e complessa che avere la capacità di capire formule chimiche e fisiche o conoscere il funzionamento del corpo umano.

Altro che test di selezione di medici e infermieri basati sulla biologia o sul  risolvere problemi di logica o di matematica!  Questo lo sanno già fare, molto meglio degli umani, gli strumenti di tecnologia biomedica!

Non sprecate più soldi ed energia su questo, tra poco non ci sarà più bisogno, per fare ciò, di medici o infermieri: sono certamente più capaci in tal senso i progressi robotici.

Investite piuttosto su un potenziamento della formazione psichica di chi fa questi mestieri, per recuperare e valorizzare  l’umanità e l’ineffabile dello psichico, che nessun algoritmo riesce ancora, e speriamo per sempre,  a standardizzare.  

Non sono stata certo temperata, ahimè.

La rabbia e l’orgoglio di un’umanità ferita mi ha fatto sentire il caldo della febbre.

Una “curandera” ammalata. L’importante, però, è riconoscerlo e assumersene la responsabilità.

Ciao amico mio.