La processione faceva il
giro delle strade più grandi di Telese ed era come se tutti stessero recitando
un unico copione. Il religioso silenzio era rotto solo dal rumore dei passi
sull’asfalto, dai canti religiosi e dalle litanie ripetute in un latino affettuosamente
casereccio.
Processione a Telese - Anni '50 - cliccare per ingrandire |
Aldo Maturo
La processione del Venerdi
Santo era uno degli eventi religiosi più partecipati dell’anno e veniva
programmata fin dagli ultimi giorni della quaresima. Don Mario Goglia riuniva
nel salone parrocchiale noi ragazzi dell’Azione Cattolica, suddivisi per aspiranti, juniores e seniores, e annunciava il programma anticipandoci cosa
avremmo dovuto fare durante i vari riti della settimana santa e, soprattutto,
durante la processione.
Qualche settimana prima di
Pasqua, però, in molte case già si preparava il germoglio di grano che sarebbe
stato portato in Chiesa per adornare i Sepolcri. I preziosi chicchi di grano venivano
seminati in un vaso che si riponeva per un mesetto in cantina o in ripostiglio,
dove sarebbero cresciuti e germogliati al buio. Il mercoledì santo lo si andava
a riprendere e si ammirava ogni volta il miracolo della natura. I chicchi erano
germogliati ma, per l’assenza della sintesi clorofilliana dovuta alla mancanza
di luce, erano diventati fili dorati e rigogliosamente fitti. Erano
cresciuti al buio - simbolo delle tenebre – e ritornavano alla luce del sole,
simbolo della resurrezione.
Lo stesso giorno, al calar
della sera, il vaso infiocchettato veniva portato in chiesa, dove il sacrestano
aveva ricoperto le statue con un drappo viola. Nel silenzio della navata
illuminata dalle candele fumanti, si poggiava il dono oltre la balaustra. La
misticità del luogo, la penombra e tutte quelle ciotole degradanti sui gradini
dell’altare centrale rallegravano l’animo e con la loro esplosione di colori
anticipavano l’imminente primavera.
Il venerdì, all’ora
stabilita per la processione pomeridiana, la chiesa era già gremita di fedeli, con le autorità rigorosamente in prima fila. Partito
dal sagrato, il corteo cominciava a snodarsi lungo via Roma sotto gli occhi
attenti degli unici tre vigili del paese, coordinati dal brigadiere Ciccio Giaquinto, allora il più
alto in grado. Gli altri due, Ciccio Merrone e Mario Grillo, si mettevano uno
in testa e uno in coda al corteo. Quello davanti faceva accostare le macchine per
dare spazio alla processione, quello in
coda evitava che qualche automobilista impaziente potesse azzardare un incauto
sorpasso.
La processione era aperta da una lunga fila di ragazzi e ragazze che camminavano uno dietro l’altro su due
file parallele. Dietro di loro, nello stesso ordine, camminavano le suore, le
pie donne e gli uomini dell’azione
cattolica fino ad arrivare al cuore della processione, dove i fedeli più robusti
portavano a spalle il sarcofago col Cristo Morto, seguìto, a qualche metro di
distanza, dalla statua della Madonna Addolorata. Era un onore caricarsi di quel
peso ed infatti i fortunati si davano spesso il cambio. Don Mario Goglia, con i
paramenti viola, seguiva il Cristo con lo sguardo triste ed assorto. Era lui
che conduceva le preghiere del Rosario e le alternava a canti religiosi. “Mira
il tuo popolo” era uno dei più noti e dei più ripetuti. Al suo fianco, quasi
scorta d’onore, il sindaco Gerardo Romano e il Maresciallo dei Carabinieri. Di seguito
gli altri notabili, che approfittavano della passerella, e la massa dei fedeli
che si diradava poco a poco fino alle macchine di coda. Sgassavano
impazienti, ansiose di potersi
rimpossessare della strada.
La processione sfilava
davanti alle case abbellite per l’occasione con un tripudio di colori e di fiori. Le
finestre e i balconi si adornavano con le coperte più belle del corredo di
famiglia. Il massimo della visibilità e del prestigio, per una casa, era
ricevere la visita del Cristo Morto e della Madonna Addolorata. Per l’occasione,
il prescelto preparava davanti all’uscio di casa un altarino arricchito con
drappi e infiorate. I portatori deviavano il percorso e vi poggiavano prima
l’una poi l’altra statua. Il tempo di
un’Ave Maria, di una fugace benedizione con l’incensiere fumante e si
ripartiva.
Telese - Anni '60 |
Si faceva il
giro delle strade più grandi del paese ed era come se tutti stessero recitando
un unico copione. Il religioso silenzio era rotto solo dal rumore dei passi
sull’asfalto, dai canti religiosi e dalle litanie ripetute in un latino affettuosamente
casereccio.
Al passaggio del corteo ci
si fermava tutti. Molti negozi abbassavano a metà la serranda e nei bar si
interrompevano i giochi e le attività per affacciarsi incuriositi all’ingresso.
Qualcuno si toglieva il cappello e accennava timidamente un segno di croce.
Tutto diventava ancora più
emozionante quando si faceva buio. Quelli delle prime file, che avevano portato
il cero infilato in un lungo bastone protetto da una veletta antivento,
finalmente potevano accenderlo. Le fiammelle tremolanti rendevano più
suggestivo il corteo e, nelle prime ombre della sera, rimarcavano anche l’ondeggiare
dei fedeli. I più giovani non pensavano più alla processione ma quasi scommettevano
su chi riusciva a rientrare in Chiesa senza aver fatto spegnere il proprio cero.
Si tornava a casa stanchi ma felici. La strada era ormai un alternarsi di penombra e di chiazze di luce giallina.
Le lampadine col piatto, penzolanti di traverso la strada, segnavano con il loro chiarore l'asfalto, rischiarandolo con un alone più luminoso.
A casa si raccontava la
cronaca della giornata a chi non era potuto andare. Nel cuore restava il segno
di quella Madonna che, dondolando insieme ai portatori, aveva seguito il Figlio
morto, portando di casa in casa il suo messaggio di dolore e di amore.