Aldo Maturo
17.7.2011
Grotta di Monte Cigno – Cusano Mutri – 3 settembre
1968
Gino Taccogna, Aldo Maturo, Gabriele Fasano e Celestino Rubino
Quella notte nessuno
di noi dormì, in attesa del grande giorno. Da una settimana stavamo preparando
la grande esplorazione trascinati dai racconti di Gino Taccogna, scapolo
impenitente, titolare di un negozio di articoli ed impianti elettrici ma coinvolto
a tempo pieno in mille hobby che costringevano i suoi clienti ad attese di
giorni e giorni per averlo come elettricista.
Il suo negozio
al quadrivio, dove ora c’è una libreria, era il nostro punto di ritrovo e un giorno
Gino ci aveva raccontato di aver visto delle grotte meravigliose più belle di
quelle di Castellana. Affascinati dall’avventura, avevamo deciso di accettare
il suo invito per condividere con lui una visita a quelle grotte. La cosa
doveva restare ammantata da un patto di segretezza e di mistero e così, come
carbonari,ci munimmo di quanto ritenevamo necessario: un casco, una tuta, poche
corde e alcune torce. Il coraggio e la follia facevano già parte del nostro
bagaglio giovanile.
La mattina, senza
che alcuno di noi avesse avvertito i propri genitori sulla destinazione della
spedizione, partimmo con direzione Cusano Mutri. Nella mia vecchia 600 c’ero
io, Gabriele Fasano e Gino Viola. Con Gino Taccogna, nella sua vecchia Renault
4 di colore indefinito, c’erano Celestino Rubino e Guido Vivenzio.
Lasciataci Cerreto
alle spalle, dopo alcuni tornanti entrammo nella valle del
Titerno, bella, romantica, affossata fra il Mutria, il Monte Cigno e la catena
del monte Erbano, già sede, si diceva, di un gran lago.
Ad un certo punto
Gino Taccogna accostò in uno slargo e io mi accodai dietro di lui, alla meglio.
Scendemmo, inebriati dalla frizzante aria del mattino ed affascinati
dallo spettacolo che dall’alto del ponte si vedeva tanti metri più giù, dove la
limpida acqua del Titerno, con il suo scorrere perenne, aveva roso la roccia
scavandosi il percorso verso valle fra massi, cascate e cespugli.
Indossammo le
tute, prendemmo la nostra roba e seguimmo Gino Taccagna che si avviò verso la
cima del monte con l’agilità di uno scoiattolo. La scalata, ripidissima, veniva
interrotta ogni tanto dalle battute e dalle imprecazioni di Celestino e
di Gabriele Fasano, oltre che mie, poco avvezzi ad inerpicarci in percorsi da
stambecco e già pentiti dell’avventura.
Finalmente
raggiungemmo Gino, che era giunto alla meta e dall’alto ci osservava con aria
sorniona mentre arrancavamo verso di lui abbrancandoci agli sterpi.
Da quell’altezza si
spaziava liberamente godendo di un panorama favoloso, reso più splendido da un
cielo terso costellato da batuffoli di nuvole. Gino Taccogna ci richiamò alla
realtà e noi ci guardammo intorno per vedere l’antro.
Fu grande lo
sconcerto quando ci indicò un anfratto nella roccia, coperto dai rovi. “Si
entra da lì” ci disse ammiccando. Ci guardammo increduli, tutti avremmo voluto
tornare indietro, tutti lo pensammo, nessuno lo disse tranne i nostri occhi.
Gino Taccogna
allargò i rovi e strisciando a terra come una lucertola si infilò in quel buco
a forma piramidale, largo poco più di mezzo metro. Lo seguimmo in fila, uno
dietro l’altro, senza fretta e senza spingere, chiedendo ogni volta a chi
scompariva dai nostri occhi “ Oh, come va?”, quasi a tranquillizzare il cuore
che accelerava i battiti in attesa di terminare quel budello.
Procedemmo
carponi per alcuni metri avanzando con gli avambracci, zigzagando e scivolando
sulla pancia, con la torcia fra i denti perchè le mani servivano a
far leva sul terreno per tirarsi avanti.
All’improvviso entrammo nella prima grotta, grande ma tanto bassa che si
riusciva a stare solo seduti. Guardammo quello strato di fango, mentre i
fasci delle torce si incrociavano alla ricerca di particolari di cui ci
sfuggiva la bellezza. Gino ci preparò alla seconda fase. Ci fece legare con una
corda l’uno agli altri e ci precedette in un foro a mezza parete donde, sempre
scivolando come in un percorso di guerra, saremmo giunti ad un’altra grotta.
Il passaggio,
attraverso quel by-pass buio e informe, fu interrotto dalle imprecazioni
(eufemismo) di Gino Viola, leggermente sovrappeso, che a un certo punto restò
incastrato nel cunicolo e non riusciva a procedere né ad indietreggiare, cosa
che, pur volendo,non avrebbe potuto fare perché dietro c’eravamo noi in
cordata orizzontale.
Avremmo dovuto
piangere, invece ridemmo, ridemmo quanto era possibile farlo pur stando al
buio,col fango fino alle labbra, la torcia a sigaretta, l’incoscienza dei
folli.
Finalmente,
spingendo, tirando e scivolando sul fango sbloccammo Gino ed entrammo nella
seconda grotta. Era immensa, gigantesca, bellissima, piena di stalattiti e
stalagmiti. Ce la godemmo tutta, facendoci anche una foto ricordo, mentre
decine di pipistrelli svolazzavano sul soffitto, impazziti e disturbati dai
nostri fasci di luce.
Dopo una breve sosta
riprendemmo l’esplorazione camminando ad altezza d’uomo fino a sbucare su
una roccia melmosa rimasta incastonata come un megagranello di sabbia nella
spaccatura di due pareti, di altezza non compatibile con i nostri piccoli fasci
di luce.
Spazzolando i
dintorni con le torce, rischiarammo sotto di noi, giù in fondo, un lago
bellissimo, con una acqua che ci parve verde smeraldo, immenso ed incastonato
nelle rocce a strapiombo.
Finalmente il team
decise di far rientro alla base e così ripercorremmo a ritroso tutto il
percorso. Questa volta Gino Viola, forse già smagrito dall’avventura,
riuscì a passare nel solito cunicolo senza “incepparsi”.
Il ritorno alla luce
del sole fu una delle sensazioni più belle che io abbia mai vissuto.
Quando anche l’ultimo lasciò alle spalle l’anfratto facendosi largo fra i rovi,
scoppiammo a ridere, a congratularci con noi stessi, a darci delle gran paccate
fino a festeggiare l’evento con una foto ricordo. La scattammo con la mia
inseparabile macchinetta fotografica, una Comet II che, a guardare i risultati,
fece miracoli ridotta com’era a un grumo di fanghiglia.
Gino Viola, Aldo Maturo,Celestino Rubino, Guido
Vivenzio,Gabriele Fasano
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Gabriele Fasano,
recuperata la saggezza prima degli altri, ricordò a tutti noi – che non
volevamo confessarlo pur avendolo pensato - che se fosse successo
qualcosa non ci avrebbero mai ritrovato. Sei ragazzi sarebbero stati dati per
scomparsi nel nulla, nessuno ci avrebbe cercato lassù e comunque mai in quel
foro d’ingresso da tana di volpe. E per sempre sarebbe rimasto il mistero di
due macchine vuote, ai margini della strada in un giorno d’autunno.
Con la gioia per lo
scampato pericolo, la discesa verso le auto fu fatta in pochi minuti, quasi
tutta col fondo schiena, insensibili alle spine, ai rovi, agli spuntoni di
roccia, alla fame, orgogliosi per l’avventura ma ancor più felici per essere
ritornati alla luce, dopo aver trascorso otto ore nella pancia del Monte Cigno.
Erano le quattro, le quattro di un favoloso pomeriggio di un indimenticabile 3
settembre 1968.
(da Fotogrammi di
memoria, Aldo Maturo, Ediz.Nous 2013)