Con sentenza del 24
marzo 2014, n. 13604 la Corte di cassazione ha stabilito che la pubblicazione e
diffusione su Facebook di contenuti che offendono l’onore e la reputazione di
un utente integrano responsabilità da fatto illecito, da cui deriva l’obbligo
di risarcimento economico del conseguente danno morale.
Scritto
da rob-crime, nel Blog Criminologia e Diritto, 26.3.2014
Avevamo affrontato, in un
precedente post (consultabile cliccando qui), il tema della diffamazione a mezzo
Internet, affrontando, in quella sede, proprio la questione della diffamazione
operata sul Social Network più popolare in assoluto: Facebook. A
distanza di 20 giorni dalla pubblicazione di questo nostro post, la Corte di
Cassazione torna sull’argomento, sancendo come offendere la reputazione su
facebook è da considerarsi reato di diffamazione.
Con sentenza del 24
marzo 2014, n. 13604, infatti, la Corte di cassazione ha stabilito che la
pubblicazione e diffusione su Facebook di contenuti che offendono l’onore e la
reputazione di un utente integrano responsabilità da fatto illecito, da cui
deriva l’obbligo di risarcimento economico del conseguente danno morale. La
novità della sentenza è, soprattutto, quello di aver anche sancito che non è
necessario indicare nome e cognome della persona a cui è rivolta un’allusione
offensiva: se la “vittima” è facilmente individuabile e la frase
incriminata è postata sul proprio o l’altrui stato di Facebook o in commento a
qualche altro post, scatta ugualmente il reato di diffamazione. Screditare le persone
su Facebook, anche senza indicare il nome, può comportare il rischio di una
querela se si capisce chiaramente di chi si parla: la semplice allusione,
infatti, può integrare il reato.
E’ bene, quindi, stare sempre attenti. Se, infatti, il riferimento alla vittima contenuto nel post diffamatorio non dovesse essere chiaro e immediato, si può passare dalla ragione al torto e rischiare una controquerela per calunnia. Fino ad oggi vi era stata una sentenza del Tribunale di Monza (Sent. n.770/2010) che aveva affermato, sostanzialmente, lo stesso principio secondo il quale <<la pubblicazione e diffusione su Facebook di contenuti che offendono l’onore, la reputazione e il decoro di un utente integrano responsabilità da fatto illecito, da cui deriva l’obbligo di risarcimento del conseguente danno morale>>.
E’ bene, quindi, stare sempre attenti. Se, infatti, il riferimento alla vittima contenuto nel post diffamatorio non dovesse essere chiaro e immediato, si può passare dalla ragione al torto e rischiare una controquerela per calunnia. Fino ad oggi vi era stata una sentenza del Tribunale di Monza (Sent. n.770/2010) che aveva affermato, sostanzialmente, lo stesso principio secondo il quale <<la pubblicazione e diffusione su Facebook di contenuti che offendono l’onore, la reputazione e il decoro di un utente integrano responsabilità da fatto illecito, da cui deriva l’obbligo di risarcimento del conseguente danno morale>>.
Se il post
incriminato viene cancellato non tutto è perduto e la possibilità di
far valere i propri diritti in Tribunale può trovare strade alternative. Possiamo
distinguere due ipotesi.
La prima è quella in
cui il destinatario del post non sia stato tanto avveduto dal fare, prima della
cancellazione, una stampa, uno screenshot o una fotografia della pagina in cui
era visibile il suddetto testo. In questo caso, l’unico modo per ricostruire la
realtà storica di quanto avvenuto è quella di avvalersi di uno o più testimoni
che potranno dichiarare quanto hanno visto, specificando nella maniera più
dettagliata possibile il contenuto del testo ed il suo autore.
Un secondo modo per
poter giungere ad una dichiarazione di responsabilità penale nei confronti di
chi ha pubblicato il post offensivo è, come si diceva prima, quello di creare
immediatamente una riproduzione meccanica del testo prima che lo
stesso venga cancellato dal suo autore o da Facebook stesso in caso di nostra
segnalazione. La riproduzione potrebbe avvenire facendo una “stampa” della
pagina Facebook, magari conservando della stessa un file in .jpeg o in .pdf con
uno “screenshot”, o ancora facendo una fotografia della pagina visualizzata dal
proprio computer. In questi casi, la vittima avrà una prova ulteriore da
utilizzare in processo.
La legge considera
riproduzioni meccaniche le riproduzioni fotografiche, cinematografiche, le
videoregistrazioni. Vi rientrano anche, secondo consolidata giurisprudenza, i documenti
informatici privi di firma digitale. Le riproduzioni e le registrazioni possono
essere formate su qualsiasi supporto materiale come, ad esempio, fogli di
carta, cd, dvd, o altri supporti come penne usb e sono rilevanti ai fini del
processo soltanto quando sono relative a comportamenti utili alla risoluzione
della controversia.
Secondo un pacifico
principio giurisprudenziale, inoltre, le riproduzioni meccaniche, proprio per
via delle modalità della loro formazione al di fuori del processo e, quindi,
senza le garanzie dello stesso, fanno piena prova delle cose e dei fatti in
esse rappresentati fino a disconoscimento della loro conformità ai fatti. In
pratica, la controparte autrice del testo potrebbe contestare, ad esempio, che
le conversazioni o le dichiarazioni contenute in una registrazione audio siano
realmente avvenute o, magari, che l’immagine riprodotta in stampa sia il frutto
di un fotomontaggio, o che il post sia rimasto pubblicato solo per poche
frazioni di secondo. In ogni caso, tale disconoscimento, effettuato dal
reo deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, con allegazione di
elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà
riprodotta. In pratica chi contesta la riproduzione meccanica deve anche dare
delle valide motivazioni per cui effettua tale disconoscimento.