mercoledì 13 novembre 2013

POLIZIA PENITENZIARIA E USO DELLE ARMI

Aldo Maturo

1^ Dirigente Amminis.Penitenz. (a.r.)


Le problematiche  sull’uso legittimo delle armi, che ha sempre rappresentato fonte di dibattito in dottrina, rappresenta anche per la Polizia Penitenziaria motivo di massimo interesse per la specificità delle funzioni svolte: la custodia dei detenuti.  E’ evidente, quindi, che ad essa sono applicabili le cause di giustificazione speciali indicate nell’art. 53 del c.p. (uso legittimo delle armi). L’uso delle armi in flagranza di un reato di evasione era stato esteso alla forza pubblica ed ai militari in servizio esterno alle carceri dall’art. 1 della L.28.6.1977 n.374. Il provvedimento era stato adottato durante gli anni del terrorismo quando le carceri di massima sicurezza venivano sorvegliate all’esterno, 24 ore su 24, dai carabinieri del Gen.dalla Chiesa e, in alcuni periodi, anche dai soldati dell’esercito.


L’uso legittimo delle armi da parte dell’agente di polizia penitenziaria che svolge il suo servizio sul muro di cinta o come ronda armata intorno all'Istituto o come sorvegliante dei detenuti che lavorano all'aperto, gli deriva dal fatto che egli è, durante quel servizio, una "sentinella" ed ha una “consegna”: evitare che avvengano evasioni, che ci siano attacchi al carcere, che sia turbato l'ordine dell'istituto.
L’art. 385 del codice penale punisce con la reclusione da sei mesi ad un anno chi, essendo legalmente arrestato o detenuto, evade.  La pena è elevata fino a tre anni se l'evasione avviene con violenza o minaccia ed è portata da tre a cinque anni se la violenza e la minaccia è commessa con armi o da due e più persone riunite.
"Evadere" significa sottrarsi alla custodia in cui lo Stato detiene una persona legalmente.  Qual’ è , nel caso dell'evasione, l'interesse protetto che legittima la presenza del servizio di sentinella? Evidentemente è l'interesse dello Stato a far espiare la pena a chi ha delinquito, il diritto dello Stato a punire chi si è messo contro le sue leggi, ad isolarlo dalla comunità per garantire a questa il diritto di vivere liberamente senza correre pericoli.
Ma la cosa non è semplice come appare. Ad esempio, si può fare uso delle armi contro il detenuto che: 
1 - si sta calando con il lenzuolo dalla finestra ma sta ancora nell'area dell'Istituto?
     2- sta scalando il muro di cinta ?
     3 - è arrivato ormai sul camminamento di ronda?
     4 - nelle Colonie Agricole e nelle Case di Lavoro all’aperto, si sta allontanando dal posto di lavoro ma è ancora raggiungibile nei confini dell’amministrazione?

E’ noto che nei nuovi istituti, oltre al muro di cinta, c'è la precinta circondata dall'inferriata esterna alta  mediamente circa 5 metri.  In questi casi, il detenuto che ha scalato il muro di cinta, si è calato all'esterno ma non ha ancora scavalcato l'ultima recinzione esterna – al di là della quale è libero -  si deve considerare evaso o in procinto di evadere?
Si tratta di casi in cui il detenuto non si è ancora sottratto alla custodia, ben potendo essere ripreso per il pronto intervento del personale o perché decide di recedere dall'azione criminosa.  In diritto si dice che non si è ancora consumato il reato e quindi, essendo possibili altri tipi di intervento per sventare l'evasione, ritengo che non è pacifico che si possa fare uso disinvoltamente delle armi.
E' anche vero però che lo stesso diritto punisce come reato consumato anche il tentativo, cioè l'insieme di atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto.  Nei casi sopraindicati chi potrebbe negare che si sono poste in essere azioni dirette in modo non equivoco ad evadere ?
Purtroppo una risposta precisa ed inequivocabile non esiste e tutto è lasciato alla valutazione istintiva ed immediata  della sentinella da una parte e del magistrato che farà l'inevitabile inchiesta, dall'altra, se il detenuto viene ferito, ucciso o riesce ad evadere.
Nessuno mai potrà compilare un decalogo in cui si dica con chiarezza quando si può o non si può fare uso delle armi nei casi sopraindicati e il problema è stato da me inutilmente dibattuto più volte con i magistrati delle Procure delle varie città dove ho svolto servizio.  Personalmente ritengo che se il detenuto si trova ancora negli spazi interni dell'istituto, e quindi non si è ancora sottratto alla custodia dello Stato, non può essere fatto oggetto di spari se chi deve, o dovrebbe intervenire, ha i mezzi e la capacità per fermarlo in altro modo.  Se uso delle armi ci può essere questo deve avvenire soltanto quando il detenuto sta ponendo in essere gli ultimi atti prima di sottrarsi definitivamente alla custodia, atti esauriti i quali ormai sarebbe fuori dalla capacità di intervento delle sentinelle e del personale.
            C’è da dire che ove la sentinella nulla facesse potrebbe essere incriminata per procurata evasione"(art.386 c.p., pena da 6 mesi a 5 anni) o per "evasione per colpa del custode" (art.387 c.p., pena fino a tre anni).
Uso delle armi può essere fatto - si diceva - anche per respingere aggressioni dall’esterno. Aggressione, in senso lato, è qualunque atto idoneo a procurare turbamento per la sicurezza e l'ordine dell'istituto.  Es. esplosione di bombe sotto il muro di cinta, uso di autobombe, lancio di armi all'intemo, lancio di scale o di funi, attacco a mezzo elicottero allo scopo di creare scompiglio e prelevare un detenuto, spari contro le sentinelle.
Sono tutte ipotesi che di per sé legittimano l'uso delle armi da parte delle sentinelle o del personale preposto a guardia del carcere, ma è chiaro che vanno tutte inquadrate poi nella fattispecie vissuta concretamente.  Chi fa fuoco o chi ordina di far fuoco non può non tener conto delle circostanze di fatto per le quali va salvaguardata comunque l'incolumità di terze persone incolpevoli.  Es. Gente che passa per strada, detenuti non coinvolti nel tentativo di evasione, colleghi di lavoro o altri operatori che si trovano sulla linea di tiro, elicottero che, se colpito, cade sulle case intorno al carcere, etc.  Il diritto all'uso delle armi deve essere quindi l'extrema ratio, dice la dottrina, cioè l'ultima ipotesi da prendere in considerazione , fatto salvo il diritto di terzi a non essere uccisi.  Ritengo infatti, anche se la cosa può essere discutibile, che il valore della vita di persone innocenti è equivalente o prevalente rispetto al bene che la sentinella deve proteggere.
Le disposizioni fin qui esaminate valgono con la stessa estensione e con le stesse precauzioni anche per il personale del Nucleo Traduzioni e Piantonamenti, sia quando è impegnato nella scorta di un detenuto dal carcere ad altro luogo (es.aula di giustizia, ospedale, altro carcere) sia quando è addetto al piantonamento di un detenuto ricoverato in una struttura ospedaliera. A nessun agente verrebbe in mente di sparare ad un detenuto che si è divincolato dalla scorta e corre per le vie della città o nei corridoi del tribunale o di un ospedale.
    Concludo questo brevissimo esame della materia delle armi della polizia penitenziaria per ricordare che l'art. 41 ultimo comma dell'Ordinamento Penitenziario prescrive che "Gli agenti in servizio all'interno degli istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal Direttore”.
    L’art. 93 del nuovo Regolamento di Esecuzione (D.P.R.30.6.2000 n.230), stabilisce a tal fine che qualora si verifichino disordini collettivi con manifestazioni di violenza o tali da far ritenere che possano degenerare in manifestazioni di violenza, il direttore dell’istituto, che non sia in grado di intervenire efficacemente con il personale a disposizione, richiede al prefetto l’intervento delle forze di polizia e delle altre forze eventualmente poste a sua disposizione, informandone immediatamente il magistrato di sorveglianza, il provveditore regionale ed il Dipartimento amministrazione penitenziaria. Inutile dire, però, che in tal caso sarà stato avvisato il magistrato di turno della procura che assumerà, con il Direttore e il Comandante, il coordinamento delle operazioni.